Da una parte Bruxelles accelera per riguadagnare controllo sulle supply chain delle materie prime. Dall’altra Pechino, che già le domina, minaccia ritorsioni per le mosse Ue a protezione del mercato interno. Mentre cresce la possibilità di una battaglia a colpi di dazi, il caso dell’auto elettrica fa venire a galla le ragioni del de-risking
Accelerata europea sul fronte delle materie prime. Giovedì gli europarlamentari hanno adottato la loro posizione sul Critical Raw Materials Act, la proposta di legge presentata dalla Commissione a marzo per assicurare che le industrie europee avranno i materiali necessari per la doppia transizione – ecologica e digitale. Con 515 voti a favore, 34 contro e 28 astensioni, non solo Strasburgo ha accolto la direzione di Bruxelles (già accolta anche dal Consiglio europeo) ma l’ha rafforzata.
La versione originale fissava l’obiettivo di estrarre internamente almeno il 10% del fabbisogno europeo di materie prime entro il 2030 (già molto ambizioso, dopo trent’anni di esternalizzazione della produzione mineraria). E oltre al riciclo dei materiali ne contempla anche la raffinazione, chiedendo di processare in Ue almeno il 40%. Il Parlamento ha alzato questo target al 50% e introdotto una serie aggiuntiva di requisiti ambientali e sociali per l’escavazione, inserendo misure per accelerare e finanziare di più i progetti considerati strategici e aggiungendo anche l’alluminio alla lista dei 34 materiali critici identificati dall’Ue.
PAROLA D’ORDINE DE-RISKING
Adesso è la volta delle negoziazioni trilaterali tra Commissione, Consiglio e Parlamento, ma è quasi certo che il progetto diventerà legge entro le elezioni della prossima primavera. Oltre a essere uno dei pilastri del Green Deal europeo, il Critical Raw Materials Act è anche uno dei sentieri da percorrere verso il de-risking dall’assertiva Pechino, che con la sua presa ferrea nel settore delle materie prime (avendo concentrato gran parte della raffinazione globale sul suolo cinese) minaccia il progresso delle transizioni nei Paesi occidentali.
L’apertura dell’indagine europea sull’“invasione” di auto elettriche cinesi a basso costo (e annesse distorsioni di mercato) va letta attraverso la stessa lente. Accesso ai materiali e protezione del mercato sono due tasselli della strategia europea di sottrarsi al pericolo rappresentato dal Dragone – che ha già dimostrato di non farsi troppi scrupoli nel bloccare le esportazioni di materie prime per perseguire i suoi scopi.
OCCHIO ALLE BATTERIE
La minaccia cinese nel campo delle auto elettriche è stata sottolineata, di recente, dal fatto che Pechino stia costruendo a colpi di sussidi molte più fabbriche per batterie di quante non ne abbia bisogno sia per il mercato interno che per l’export. Nel 2023 queste produrranno abbastanza batterie per 22 milioni di auto elettriche, più del doppio del necessario. Stando ai numeri offerti dal Cru Group e affidati al Financial Times, entro il 2027 il livello salirà a quattro volte, ed entro il 2030 le fabbriche cinesi potranno produrre il doppio delle batterie che servirebbero al Paese per elettrificarsi completamente.
Si tratta solo di prepararsi per l’impennata della domanda globale? Il sospetto, condiviso da diversi analisti e avallato da Goldman Sachs, è che la sovrapproduzione di batterie per auto potrebbe diventare un modo per inondare i mercati esteri e soffocare i concorrenti. Attraverso il dumping sui mercati esteri, così com’è avvenuto per i pannelli solari (che oggi sono quasi tutti Made in China), il Partito comunista cinese può assicurarsi di rimanere il maggior fornitore, annullando gli sforzi di misure come il Critical raw materials act e conservando una potente leva geopolitica.
LA POSSIBILITÀ DI UNA GUERRA DELLE TARIFFE
A giudicare da come Pechino ha accolto la notizia dell’indagine europea sulle auto elettriche cinesi, ci si può aspettare un aumento della tensione. Giovedì il ministero al Commercio cinese ha accusato l’Ue di appoggiare un tipo di protezionismo “che disturberà e distorcerà seriamente l’industria automobilistica globale e la catena di approvvigionamento, compresa [quella europea], e avrà un impatto negativo sulle relazioni economiche e commerciali tra Cina e Ue”.
L’accusa della Cina va contestualizzata: secondo i dati doganali cinesi citati da Reuters, nel 2022 le esportazioni verso l’Ue sono aumentate fino a 562 miliardi di dollari. Di contro, quelle europee verso il Celeste Impero sono scese a 285 miliardi di dollari per via dell’indebolimento della domanda cinese. Resta il fatto che il deficit commerciale si è amplificato notevolmente per il secondo anno di fila: adesso l’import europeo dalla Cina vale praticamente il doppio del flusso opposto.
A ogni modo, Pechino ha negato che i sussidi abbiano contribuito al boom di auto auto elettriche cinesi in Ue e assicurato che “presterà molta attenzione alle tendenze protezionistiche dell’Ue e alle azioni successive, salvaguardando con fermezza i diritti e gli interessi legittimi delle imprese cinesi”. Insomma, il rischio è che Bruxelles deciderà di imporre tariffe punitive agli automaker cinesi, Pechino risponda per le rime – con tariffe a sua volta, o anche privando l’Ue di materie prime, come hanno già sperimentato gli svedesi di Northvolt.
Mentre la relazione tra Ue e Cina si raffredda, è probabile che gli europei dovranno scegliere tra accettare le pratiche sleali ed entrare in conflitto con Pechino. E la seconda opzione sarà tanto valida quanto sarà solido il processo di de-risking.