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Hezbollah potrebbe allargare il fronte al Sudamerica? Conversazione con Ottolenghi

Per Emanuele Ottolenghi, senior fellow della Foundation for Defense of Democracy, la posizione espressa dal leader di Hezbollah nel suo primo discorso dall’inizio della crisi mediorientale è coerente con la linea tenuta finora dal gruppo. Ma gli attacchi non si fermeranno, anche senza una dichiarazione di guerra contro Israele. E occhio al Sudamerica

Dopo giorni di attesa, con tanto di trailer e hype mediatico, il leader del Partito di Dio libanese, Hezbollah, ha parlato. Hassan Nasrallah ha fatto il suo primo discorso da quando è iniziata la guerra tra Israele e Hamas. Una crisi militare scatenata dal brutale attacco dei terroristi palestinesi contro gli israeliani del 7 ottobre, dove Hezbollah ha voluto da subito giocare la sua parte. Le forze del gruppo libanese sono da giorni impegnate in attacchi contro il territorio israeliano dal sud del Libano, a cui le Israel Defense Forces rispondono con bombardamenti diretti che hanno già ucciso una cinquantina di miliziani.

Nasrallah, nel suo discorso di venerdì pomeriggio, ha rivendicato di essere subito accorso in sostegno dei palestinesi e come puntello dell’Asse della Resistenza, il fronte khomeinista anti-israeliano che viene sostenuto dai Pasdaran attraverso connessioni ideologiche, economiche e militari. Ma dalle sue parole emerge una volontà di restare per il momento su un livello minimo (quasi necessario) di coinvolgimento a bassa intensità, senza una vera e propria dichiarazione di guerra — che invece era una grande preoccupazione a proposito dell’espansione regionale del conflitto. La posizione di Nasrallah era per certi versi prevedibile?

Per Emanuele Ottolenghi, senior fellow della Foundation for Defense of Democracy e uno dei massimi esperti al mondo delle attività di Hezbollah, il discorso di Nasrallah è coerente con la lettura che si può dare della postura tenuta sinora dal gruppo di cui è guida spirituale. “Hanno certamente aumentato la pressione su Israele, ma hanno misurato il trend di escalation, soprattutto hanno evitato di entrare in guerra, nonostante abbiano dichiarato più volte che avrebbero potuto farlo se Israele fosse entrato a Gaza”.

Gaza City è circondata. La penetrazione terrestre è nel culmine della battaglia per ora, e mentre si muovono le richieste di cessate il fuoco, il governo israeliano conferma che le operazioni andranno avanti fino all’eliminazione di Hamas.

Bassa intensità, limitata responsabilità

“Un aspetto interessante della retorica usata da Nasrallah è nel cercare di smentire il coinvolgimento diretto di Iran e Hezbollah nella pianificazione. È un segnale: vogliono disimpegnarsi dal rischio di essere visti come responsabili. Ciò detto però, si congratulano con le forze della Resistenza e minacciano l’apertura di altri fronti”, spiega Ottolenghi a Formiche.net.

Ma qual è la ragione di questo muoversi dalle secondo file? Cosa porta Hezbollah a non farsi per ora coinvolgersi? “L’elemento determinante nella posizione di Hezbollah, che è estensione della posizione iraniana, è la presenza di forze americane e occidentali nel Mediterraneo come deterrente. Nasrallah ha definito i rinforzi inviati dagli Stati Uniti come un segno di debolezza, ma sa anche che se Hezbollah attacca, gli Usa potrebbero essere pronti a intervenire e l’intervento potrebbe significare che le postazioni di Hezbollah diventino obiettivi legittimato per Washington”.

D’altronde, abbiamo visto la serie di attacchi contro le basi occidentali in Iraq e Siria e alcune reazioni collegate americane. La situazione è già tesa, perché le milizie sciite regionali giocano col fuoco, producono stress test graduali cercando continuamente di contenere la risposta di Stati Uniti e Israele. Il rafforzamento americano nella regione è legato proprio all’evitare un’escalation e un allargamento regionale del conflitto, e finora la deterrenza ha funzionato.

“Inoltre — aggiunge Ottolenghi — Hezbollah deve fare i conti con l’arena domestica. Una guerra con Israele rischierebbe di indebolire la posizione di centralità ormai acquisita all’interno del Paese”. C’è un dissenso che dura già dal 2006, quando Nasrallah portò i suoi all’attacco frontale contro Israele. Quella guerra non è ancora stata pacificata, ed è parte delle preoccupazioni.

Hezbollah ha intenzione di essere pronto, preparato a eventuali evoluzioni, ed è lo stesso asse khomeinista a essere in tale stato di allerta. Per esempio, nei giorni scorsi la Brigata Imam Hussein è stata spostata dalla Siria al Libano. Si tratta di una milizia composta principalmente da sciiti iracheni che è stata integrata nella Quarta Divisione dell’esercito regolare siriano e opera principalmente nell’area di Damasco: è guidata da Maher Assad, fratello del satrapo siriano, ed è ormai un proxy delle Quds Force (l’unità di élite dei Pasdaran).

Il quadro potrebbe essere questo: Hezbollah, i Pasdaran e in generale l’Asse della Resistenza, potrebbero lavorare per tenere alta l’asticella del coinvolgimento-a-bassa-intensità. Ossia, gli attacchi da vari fronti potrebbero facilmente aumentare, ma senza — per ora — diventare qualcosa in più di operazioni di guerra asimmetrica e ibrida. Tra queste, è possibile ipotizzare anche rischi di azioni al di fuori del quadrante mediorientale, per esempio in Sudamerica?

Tensioni oltre il Medio Oriente

“È possibile che Hezbollah e gli iraniani sfruttino le reti ben radicate che si nascondono tra le comunità libanesi e sciite della diaspora, le quali risiedono in certe zone sudamericane da circa mezzo secolo. Esse servono principalmente alla promozione di traffici illeciti, i quali hanno funzione principale di raccolta di proventi e fondi per finanziamento. Ma sono reti che già in passato sono state attivate per appoggio logistico e fornitura di infrastruttura per attacchi terroristici. E non solo nei casi in cui gli attentati hanno avuto esito finale, qualche decennio fa, ma svariate altre volte, ben più recentemente, ci sono stati una serie di tentativi di attacchi sventati prima dell’azione”, spiega Ottolenghi.

L’esperto segnala dinamiche preoccupanti: l’aumento di arresti in America Latina di cittadini mediorientali, per lo più iraniani (e anche un iracheno) con passaporti falsi. “Questa settimana in Brasile è stato fermato un iraniano che gestiva una rete di passaporti falsi, mentre la Bolivia sta aumentando i visti di entrata di cittadini iraniani. C’è fermento nell’infrastruttura”.

Inoltre, in questi giorni la Bolivia ha rotto relazioni diplomatiche con Israele, mentre Cile e Colombia hanno richiamato gli ambasciatori per consultazioni. Ottolenghi fa notare che insieme a questi atti diplomatici forti va aggiunta la retorica pubblica, in particolare quella del presidente colombiano Gustavo Petro, che ha definito la situazione a Gaza “un genocidio”. E ci sono segnali preoccupanti nelle relazioni diplomatiche anche anche in Brasile, oltre che nei Paesi classicamente collegati all’Iran come Venezuela e Nicaragua. “Difficile dimostrare un’influenza diretta dell’Iran in certe attività, ma Petro, il cileno Gabriel Boric e Luis Arse in Bolivia fanno parte della sinistra attivista anti-imperialista e ospitano una grande rete filo-iraniana e Hezbollah. E ospitano anche centri culturali nominalmente indipendenti, ma che fanno capo a Teheran. E dunque, a livello di retorica questa influenza si sente”, spiega Ottolenghi.



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