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Radiografia del vertice Ue-Cina tra tensioni e scetticismo

Ci sono diverse questioni che ostacolano la possibilità che dal vertice Ue-Cina si esca con un reale miglioramento delle relazioni. Dal de-risking alla sicurezza, il vertice è guidato dallo scetticismo

I leader dell’Ue Ursula von der Leyen e Charles Michel sono oggi a Pechino per un vertice che si preannuncia “gelido” (copyright Politico, il media più informato al mondo sui dettagli dell’incontro). Una serie di questioni strutturali interne e desideri strategici da parte di entrambi crea scetticismo sul miglioramento dei rapporti, almeno nel breve termine.

La radiografia delle relazioni, faccia a faccia col leader cinese Xi Jinping, per la prima volta dopo il Covid, giunge mentre il tentativo di von der Leyen di diversificare le relazioni economiche dell’Europa, allontanandole da una Pechino ostile e dominante, sta incontrando ostacoli. L’operazione nota come “de-risking”, condivisa con gli Stati Uniti come piano strategico di lunga gittata, trova alcune ritrosie da alcuni Paesi membri dell’Unione (o meglio dire, da gruppi di interesse interni ad essi). E poi trova difficoltà tecniche nei rallentamenti a piani di lungo termine come l’accordo commerciale Ue-Mercosur, lasciato nel limbo proprio in questi giorni, e quello con l’Australia ostacolato.

Di più: appena un giorno prima del vertice, la Cina ha respinto con nervosismo la denuncia di von der Leyen sul deficit commerciale sofferto da Bruxelles nei confronti di Pechino. Il portavoce del ministero degli Esteri dice che l’Ue è responsabile dello squilibrio commerciale che soffre, perché ha impedito alle imprese di esportare in Cina. L’export control è una delle misure europee — condivise con gli Usa — all’interno del piano di de-risking. Il timore è che fornendo ai cinesi tecnologia di massimo livello, potenzialmente dual-use, si finisca per alimentare l’evoluzione della macchina militare del Partito/Stato — e dunque aumentare le capacità di deterrenza. Sullo sfondo, più ampio, la competizione tecnologica totale.

Di più ancora: a inasprire ulteriormente gli animi, secondo quanto reso pubblico per primo dal Corriere della Sera (poi rimbalzato in mezzo mondo), l’Italia si è ufficialmente ritirata dalla Belt and Road Initiative cinese. Pochi giorni fa, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha presentato formalmente una nota a Pechino per annunciare la decisione dell’Italia dall’infrastruttura geopolitica di Xi. La scelta di Roma è un colpo per Pechino, l’adesione italiana del 2019, unico membro del G7, era un vanto per il Partito/Stato.

E ancora di più: la Sheffield Hallam University ha fatto uscire in questi giorni un nuovo report bombastico che rivela come alcuni dei principali marchi di abbigliamento con sede o attività nell’Ue rischiano di rifornirsi di prodotti realizzati con il lavoro forzato degli uiguri. Le catene di approvvigionamento rischiano di arrivare fino allo Xinjiang, dove si produce circa il 23% della fornitura mondiale di cotone e il 10%, e dove secondo un programma di rieducazione del Partito/Stato i musulmani uiguri e di altre minoranze etnico-religiosi sono costretti a lavorare in programmi di trasferimento di manodopera imposti dallo Stato. “Un’enorme quantità di abbigliamento e calzature a livello mondiale rischia di essere coinvolta nel lavoro forzato del popolo uiguro” anche in 39 marchi famosi elencati nel documento. Dell’argomento, in largo, ne stanno parlando al Consiglio Competitività i ministri dell’Ue: la Commissione vorrebbe vietare l’ingresso nel mercato europeo ai prodotti realizzati con il lavoro forzato.

Pessimismo e fastidio

Il quadro generale racconta che la sfida dell’incontro Ue-Cina a Pechino si complica, e i bassi livelli di aspettative per risultati positivi aumentano. Ci sono anche tensioni sulla sicurezza evidenti, legate per esempio ai timori che una nave cinese abbia non solo disturbato cavi sottomarini nel Mar Baltico, ma lo abbia fatto deliberatamente (strisciando l’àncora che si è agganciata al Balticconnector per diverse miglia nautiche).

La reticenza della Cina nell’influenzare la Russia nella guerra in Ucraina e i benefici militari derivanti dalle esportazioni cinesi a favore della Russia aggiungono un ulteriore ostacolo alle relazioni Ue-Cina, spiegano funzionari militari europei che parlano con discrezione dell’argomento. La questione sicurezza infastidisce ulteriormente i rapporti, con le attività di Pechino che ormai sono considerate tra le minacce alla sicurezza europea.

Le problematiche economiche strutturali in Cina, come la fuga di capitali e la debolezza economica, rendono inoltre improbabile una riduzione del surplus commerciale con l’Ue. Questo disequilibrio, necessario per bilanciare i rischi dei pagamenti dovuti alle fughe di capitali, crea una sfida significativa per la bilancia commerciale tra le due entità.

C’è poi da aggiungere un’indagine anti-sovvenzione sul settore automobilistico cinese e la crisi costituzionale-fiscale in Germania, tra le cose che limitano le opzioni della Commissione Europea. La possibilità di fornire sussidi nazionali per contrastare la concorrenza cinese è ridotta, aumentando l’attrattiva di azioni commerciali più rigorose, anche se comportano costi finanziari a lungo termine.

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