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Dieci conflitti per il 2024. L’indice del Crisis Group

Dall’Ucraina a Gaza, passando per Myanmar e Haiti. Nel documento firmato dai vertici dell’Ong appaiono conflitti ancora in corso, o che rischiano di (ri)accendersi. E tra questi vi è il conflitto per eccellenza

Il 2024 sarà un anno di tensioni, parola dell’International Crisis Group (Icg). L’organizzazione non-governativa transnazionale ha rilasciato un report, firmato dalla presidente Comfort Ero e dal vicepresidente Richard Atwood, dal significativo titolo “10 Conflicts to watch in 2024”. Scopo del documento è quello di fornire un assessment sull’evolversi della situazione securitaria globale negli ultimi mesi, evidenziando quali possano essere i principali focolai di crisi dell’anno che verrà.

Facendo però anche delle considerazioni di ampio respiro. A partire dall’evoluzione del sistema internazionale, che negli ultimi trent’anni ha assunto un carattere sempre più multipolare, con l’emergere non solo di grandi potenze ma anche di medi potenze (basti pensare, solo per citare alcuni esempi, alla rinnovata assertività di Brasile, monarchie del Golfo, India, Indonesia e Turchia). E nella stessa finestra temporale, l’Icg denota anche una minore tendenza al dialogo politico, a cui viene preferita un’imposizione delle proprie richieste tramite la vittoria nel confronto bellico. Aumentando così il rischio di nuovi conflitti. “La norma di non aggressione che per decenni ha sostenuto l’ordine globale si sta già sfilacciando, anche grazie al tentativo della Russia di annettere una parte dell’Ucraina. Nel 2024, il rischio che i leader vadano oltre la repressione del dissenso in patria o l’ingerenza all’estero tramite proxies, per invadere effettivamente i vicini, è più grave di quanto non lo sia stato negli ultimi anni” chiosano Ero e Atwood.

Che passano poi ad identificare le linee di faglia. Partendo dal riaccendersi delle ostilità tra israeliani e palestinesi, che non sembrano destinate a trovare rapidamente termine. E mentre le tensioni tra le due popolazioni si accrescono, la possibilità di un post-conflict settlement si fa sempre più lontana. E la tragedia umanitaria rende la situazione ancora più instabile. Con il proseguire della guerra che “non segna l’inizio degli sforzi per rilanciare un processo di pace, come sostengono alcuni leader occidentali, ma la fine di qualsiasi percorso politico riconoscibile. Mai, nella desolante storia del conflitto, la pace è sembrata più lontana”.

Con il rischio che il conflitto possa allargarsi a livello regionale. Negli ultimi mesi Teheran ha avuto modo di mostrare quanto sia esteso il cosiddetto “axis of resistance”, termine che indica la sua rete di proxies attiva in tutto il Medio Oriente. Ma quest’estensione implica anche la presenza di molteplici micce capaci di accendere la polveriera del vicino Oriente, allargando il conflitto ad un numero di attori difficile da prevedere con esattezza. Dal confine tra Israele e Libano al Siraq e al Mar Rosso, tutti gli episodi di violenza rischiano di avviare un processo da cui potrebbe essere difficile tornare indietro.

C’è poi la situazione in Sudan, dove infuria la guerra civile tra le forze armate e le paramilitari Rapid Support Force, e dove i numerosi atti di violenza riportati negli ultimi mesi ricordano quel del genocidio in Darfur di cui ancora aleggiano le ombre. Lo scontro interno è stato ovviamente oggetto di interventi esterni: mentre l’Egitto sostiene le forze armate regolari, le Rsf sono sostenute dagli Emirati Arabi Uniti; inoltre, le Rsf avrebbero goduto dell’appoggio del Gruppo Wagner, motivo che avrebbe portato gli ucraini a sostenere la fazione opposta. I tentativi di negoziato si sono finora rivelati fallimentari, ma come viene sottolineato nel report “le Rsf e l’esercito non smetteranno di combattere senza avere voce in capitolo sul futuro.”

L’Ucraina rimane, ovviamente, una delle grandi linee di faglia della contemporaneità. Quello che succede in questo campo di battaglia è infatti fondamentale per la sicurezza del continente europeo. Ma anche in questo contesto il raggiungimento di un compromesso sembra arduo, nonostante la situazione sul campo sia ormai definibile uno stallo. Al momento, mancano le condizioni per spingere una delle due parti a una rinuncia. Ma queste condizioni potrebbero arrivare in futuro, anche nei prossimi mesi. Ed è proprio quello in cui il leader russo Vladimir Putin spera fortemente.

Anche il continente asiatico non è esente da frange di conflitto. A tre anni dal colpo di Stato che ha portato nuovamente i militari al potere, le violenze in Myanmar non sembrano destinate a placarsi. Anzi, nel corso del 2023 gli scontri tra le forze della resistenza (che hanno messo in atto operazioni di carattere offensivo) e i militari si sono moltiplicati, così come si sono moltiplicati gli episodi di violenza commessi nei confronti della popolazione civile. Mentre, dall’esterno, una Pechino semi-neutrale (in realtà sostenitrice indiretta dei ribelli) continua a monitorare con attenzione l’evolversi degli eventi.

Altra “area calda” segnalata nel report dell’Icg è quella dell’Etiopia. L’affievolirsi della lotta tra il governo federale e i separatisti tigrini ha portato infatti a nuove escalation di violenza che hanno visto coinvolte gli esponenti dell’etnia Amhara e le autorità di Addis Abeba, con i primi che accusano i secondi di non tutelarli nei confronti dei tigrini. Nel frattempo, anche nella regione dell’Oromo stanno prendendo piede insurrezioni antigovernative. L’arduo compito del primo ministro etiope Abiy Ahmed è quello di “porre fine alle guerre in Amhara e Oromia, mantenendo la pace in Tigray, ma anche costruire un consenso sulla soluzione più ampia di cui l’Etiopia ha bisogno, mentre le relazioni interetniche si sfilacciano. Inoltre, ad aggravare le sfide, l’economia etiope è in difficoltà. Un numero maggiore di giovani alienati potrebbe alimentare ulteriore instabilità”. E anche al confine con l’Eritrea la temperatura rimane alta, molto alta.

Il colpo di Stato che quest’estate ha portato al potere anche in Niger una giunta militare ha aggiunto un altro fattore di instabilità alla già delicata situazione del Sahel. Negli scorsi anni la regione ha visto da una parte crescere la minaccia jihadista, mentre dall’altra ha assistito ad una serie di colpi di stato militari (e di carattere antioccidentale) che hanno avuto luogo in Mali, Burkina Faso e, appunto, Niger. E negli scontri tra gli apparati militari e i movimenti islamisti, le popolazioni civili continuano ad essere vittime innocenti.

Anche il caos di Haiti è stato indicato da Ero e Atwood come uno dei più importanti focolai di violenza del 2024. L’autorità dello Stato haitiano sul suo territorio è pressoché inesistente, mentre il monopolio della forza viene spartito tra le gang criminali e le autoproclamate bande di giustizieri note come Bwa Kale. La situazione umanitaria è disastrosa: queste violenze “hanno spinto decine di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case, alcune delle quali hanno cercato rifugio in campi di sfollamento improvvisati dove possono trovarsi ad affrontare pericoli simili a quelli da cui sono fuggite, compresa la violenza sessuale”. La speranza che nel 2024 si concretizzi un intervento estero è molto diffusa tra la popolazione, ma le possibilità di tale intervento rimangono molto basse.

Il 2023 ha pure visto riaprirsi il conflitto in Nagorno Karabakh, con il lancio da parte delle forze azere di un’operazione lampo che ha costretto gli armeni a ritirarsi dalla porzione di territorio della regione ancora sotto il loro controllo. Eppure vi è il rischio che l’Azerbaijan decida di non accontentarsi di recuperare il territorio “perduto” all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, ma che voglia sfruttare il momento di superiorità militare per strappare all’Armenia parti integranti del suo territorio come la striscia che separa l’entroterra azero dalla sua exclave di Nakhchivan. Le trattative di dicembre 2023 tra Baku e Yerevan sembrerebbero aver avuto successo nell’instaurazione del dialogo tra i due Paesi, ma gli scenari più pessimisti sono ancora non solo possibili, ma probabili.

Infine, l’ultima grande linea di frattura indicata dall’Icg è un conflitto che ancora non è scoppiato, almeno militarmente: quello tra Usa e Cina. L’incontro tra il presidente statunitense Joe Biden e il segretario del Partito Comunista Cinese Xi Jinping avvenuto a novembre è stato il concretizzarsi delle intenzioni delle due superpotenze di stemperare le tensioni; tensioni che però non sono sparite, anzi. Soprattutto quelle nel Mar Cinese Meridionale, che rischiano di diventare miccia involontaria per l’avvio di un conflitto di portata inimmaginabile. “Per ora”, sostengono gli autori del report, “probabilmente il pericolo maggiore è che aerei o navi cinesi e statunitensi si scontrino. Secondo il Pentagono, il numero di incontri rischiosi negli ultimi due anni supera quelli dei due decenni precedenti. Le atmosfere più calde dopo l’incontro Biden-Xi (e, si spera, il riaperto canale di comunicazione militare) forniscono un cuscinetto, ma non sarebbero sufficienti in caso di incidente, soprattutto se si verificano vittime. L’ultimo incidente di questo tipo, quando due aerei si sono colpiti nel 2001, uccidendo un aviatore cinese e costringendo un aereo statunitense ad atterrare sull’isola cinese di Hainan, ha richiesto colloqui delicati per trovare una soluzione che permettesse a entrambe le parti di salvare la faccia. Oggi è difficile vedere spazio per questo tipo di diplomazia”.

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