A che punto siamo sull’immigrazione? Domanda lecita vista la presidenza italiana del G7 e dopo un 2023 che ha segnato un cambio di passo di Roma nei confronti di uno dei problemi più divisivi della recente storia politica italiana. Il commento di Igor Pellicciari, professore di Storia delle istituzioni e Relazioni internazionali presso l’Università degli studi di Urbino
A che punto siamo sull’immigrazione? Domanda lecita vista la presidenza italiana del G7 e dopo un 2023 che ha segnato un cambio di passo di Roma nei confronti di uno dei problemi più divisivi e impaludati della recente storia politica nostrana. Da quando, negli anni Novanta, l’approdo sulle coste pugliesi di barconi carichi di immigrati dall’Albania segnò l’escalation di quella che sarebbe rimasta una delle principali crisi italiane.
Con il repentino sciogliersi dell’ordine bipolare della Guerra fredda, l’occidente divenne meta di massicce migrazioni provenienti da est che scalzarono in intensità le precedenti provenienti dal sud terzomondista (sotto controllo, in quanto figlie della classica cooperazione allo sviluppo). È stato un nuovo fenomeno demografico trans-nazionale cui i singoli Paesi coinvolti hanno reagito diversamente dando vita a una varietà di casi nazionali.
I più attivi sono stati quelli che per il loro passato coloniale avevano già maturato esperienza di gestione dei flussi migratori. Altri, tra cui l’Italia, sono stati colti di sorpresa e hanno faticato a organizzare una risposta coerente da un punto di vista politico-amministrativo. Con una storia nazionale più votata all’emigrazione che all’immigrazione e una nuova classe politica, emersa con Mani pulite, molto italo-centrica e poco ferrata sulle questioni di politica estera, Roma si è trovata geopoliticamente esposta ai flussi migratori ma senza una cultura di governo e relazioni internazionali per farvi fronte.
Dagli albori della questione, in Italia la semplice dialettica politica ha vinto sulla programmazione di politiche che affrontassero il fenomeno dell’immigrazione. Si è preferito istituzionalizzare una situazione di emergenza continua sul piano interno, facendone terreno di scontro di valori e contrapposizione frontale tra schieramenti opposti, arroccati su posizioni ideologiche di chiusura o apertura ai migranti, soprattutto se irregolari e non europei. Con, in entrambi i casi, ampio ricorso alla retorica per coprire la pochezza o l’incongruenza delle soluzioni avanzate.
È un gioco delle parti che ha garantito rendite di posizione politica; permesso la difesa dei rispettivi valori di riferimento; alimentato il rinfacciarsi reciprocamente (da sinistra nei confronti della destra) i morti dei naufragi in mare e (da destra nei confronti della sinistra) i periodici scandali legati alla malversazione dei fondi destinati a gestire l’emergenza. Il punto è che questa polarizzazione ideologica ha rafforzato alcuni falsi miti e postulati errati sull’immigrazione che hanno complicato una soluzione tecnica sostenibile al “caso italiano”.
Da un lato l’immigrazione è stata considerata una questione domestica di competenza esclusiva del ministero dell’Interno, e non (anche e soprattutto) un problema afferente alle relazioni internazionali, da affrontare con politiche integrate degli esteri, della difesa, dell’Intelligence, della cooperazione a monte con i Paesi di provenienza dei migranti. Magari sotto il coordinamento di un ministero dell’Immigrazione che Roma, a parte la breve parentesi del governo Andreotti VII, si è sempre ben guardata dall’istituire.
D’altro canto c’è stata eccessiva attenzione e risorse (circa quattro miliardi annui) sulla prima accoglienza del migrante illegale piuttosto che sul suo percorso di integrazione nella società italiana. Con il paradosso tutto nostrano del migrante accudito più a un giorno che a un anno dal suo arrivo. Alla luce di questa impasse trentennale, va dato atto al governo Meloni di avere intrapreso una non scontata svolta alla questione infrangendo consolidati tabù retorici.
Spostando l’asse dalla “politica” alle “politiche” e il dibattito dall’“emergenza” al “governo dell’immigrazione”. Prima ancora che il controverso accordo italo-albanese sui centri di accoglienza e rimpatrio sono la Conferenza internazionale su sviluppo e migrazioni organizzata lo scorso luglio a Roma oppure l’impulso dato dall’Italia al processo di integrazione europea dei Balcani occidentali a dire del tentativo del governo di giocare d’anticipo sulle due future principali rotte di transito dell’immigrazione (via mare dall’Africa e via terra dal sud-est Europa).
A voler cercare un punto debole nell’azione del governo – più che in una sua incoerenza rispetto ai tradizionali propositi elettorali del centrodestra (argomento labile nel “così-fan-tutti” nostrano) – questo semmai si annida nella scarsa articolazione e programmazione che ad oggi denunciano iniziative come il suggestivo Piano Mattei per l’Africa. Minacciando, secondo un copione già visto, di riportare il tutto dall’auspicato piano delle “politiche di governo” a quello fine a se stesso della mera “politica degli annunci”.
(Articolo pubblicato sulla rivista Formiche 198)