Se c’è una parola che emerge chiaramente in questi ultimi giorni pre-elettorali a Taiwan, quella è pace. Sebbene Pechino voglia descrivere il voto per la nuova presidenza come un passo in più verso la guerra, il contesto internazionale sta convincendo maggiormente i taiwanesi sulla necessità di mantenere uno status quo pacifico con Pechino
Tra una settimana esatta, 19,3 milioni di elettori taiwanesi saranno chiamati a compiere l’atto istituzionale — e culturale — che sentono più caro, perché prerogativa esistenziale della Repubblica di Cina: le elezioni. Il momento è cruciale, dato che la Cina sta aumentando le sue pressioni: Pechino vuole annettere l’isola (anche se la narrazione del Partito/Stato usa il termine “riannessione”, ma Taiwan non è mai stata annessa). Il leader Xi Jinping ha più volte calcato sull’importanza di questo processo. Essenzialmente: per una potenza che intende dominare il mondo non è ammissibile l’esistenza di un’altra Cina, e su questo si basa la “One China Policy” su cui Pechino poggia parte delle relazioni diplomatiche con gli altri Paesi, costretti a non riconoscere formalmente l’esistenza di Taiwan se vogliono avere rapporti con la Cina. C’è spazio per l’ambiguità, per la costruzione di relazioni informali con Taiwan, visto che l’isola sta diventando sempre più centrale riguardo una serie di dossier internazionali. È così anche per l’Italia, che non riconosce formalmente l’esistenza della Repubblica di Cina, anche se nei fatti i rapporti Roma-Taipei vanno a gonfie vele, come ha raccontato a Formiche.net l’ambasciatore Vincent Tsai (che proprio per questa disfunzione di diritto viene definito con un’astrusa costruzione: “rappresentante” a capo dello “Ufficio di Rappresentanza di Taipei in Italia”)
“Nella mia generazione, molti non sono così sensibili alle nostre origini storiche come i nostri genitori o nonni”, dice uno degli intervistati in un reportage che il Financial Times ha fatto tra la Gen Z taiwanese. “Gli eventi attuali hanno giocato un ruolo almeno altrettanto importante nel plasmare le nostre identità”. Si riferisce a questi ultimi anni, in cui la Cina ha mostrato il suo lato più aggressivo — e in cui il dossier taiwanese è diventato mainstream, anche perché ci si è accorti dell’importanza imprescindibile che hanno settori come quello dei semiconduttori, dominato a livello globale dalla TSMC di Taipei. Ma non solo: c’è un’altra serie di fatti più a carattere interno che ha contribuito a plasmare questa identità taiwanese corrente. Nel 2012, l’acquisizione di asset mediatici da parte di personaggi favorevoli alla Cina ha scatenato la preoccupazione che la Cina si stesse infiltrando nei media dell’isola per modellarne l’opinione pubblica. Poi le varie mosse per forzare la sfera economica, cercando di limare anche quel lato della sovranità taiwanese. Nel 2014 gli studenti hanno occupato il parlamento per impedire ai legislatori del Kuomintang (storico antagonista, ma adesso considerato il più morbido con la Cina dei partiti che competono per la presidenza) di imporre un accordo commerciale sui servizi con la Cina, una reazione contro le politiche che, secondo molti, rendevano il Paese troppo dipendente dal suo vicino.
Un dato riportato anche nell’analisi sui destini taiwanesi pubblicata su “Indo Pacific Salad”: oggi meno del 3% dei taiwanesi si identifica solo come cinese, mentre circa il 30% si identifica sia come cinese che come taiwanese, più del 60% afferma di essere solo taiwanese. Anche partendo da questo, Dominic Meng-hsuan Yang, storico alla University of Missouri, è ottimista sul fatto che la democrazia e il ricambio generazionale stiano gradualmente riducendo il “memory divide” tra i diversi gruppi di colonizzatori e colonizzati di Taiwan. “Stiamo assistendo al graduale avvicinamento di due nazionalismi, quello di Taiwan e quello della ROC”, afferma: “Il corso inflessibile della Cina non fa che accelerare questo processo”. Wang Ya-june, un’altra delle protagoniste del reportage del FT, fornisce un esempio perfetto dell’attuale pensiero. Per lei Taiwan, non la Cina, è la sua casa e si sente di respingere chiunque pensi di rompere lo status quo: “Perché la gente sente di dover fare sempre la guerra?”, si chiede. “Ho avuto abbastanza amarezza nella mia vita”. Ed è una percezione che cresce con l’aumentare dell’instabilità internazionale: quanto accaduto in Ucraina, la destabilizzazione nell’Indo Mediterraneo connessa anche alla guerra di Gaza, le guerre nel Sahel nonché ovviamente le pressioni di Pechino sul Mar Cinese ai danni (non solo) delle Filippine, sono tutte notizie che passano sui media taiwanesi e sensibilizzano ulteriormente certe posizioni.
Mentre a Taiwan si pensa alla pace, la narrazione cinese vuol descrivere invece le elezioni come una mossa verso la guerra. “La guerra è sinonimo di disastro per Taiwan, ma anche per la Cina [e] per il mondo intero”, ha detto al Monde il ministro degli Esteri taiwanesi, Joseph Wu, una delle figure chiave per la rappresentatività che Taipei ha acquisito in questo ultimi anni. Wu – che Formiche.net ha recentemente avuto l’occasione di ospitare in un intervento proprio sulla necessità che Taiwan (con i suoi know-how ed esperienze) sia inclusa nelle rappresentanze istituzionali internazionali – è ministro dal febbraio 2018, tra i principali uomini della presidenza della leader del Partito democratico progressista, Tsai Ing-wen, la cui eredità verrà raccolta alle elezioni dal suo vice, Lai Ching‑te (noto anche come William Lai). Contro di lui, finora leggermente favorito nei sondaggi, un ex capo di Polizia, Hou Yu-ih, che si presenta per il Kuomintang, e l’ex sindaco di Taipei, Ko Wen-je, del Partito popolare.