L’Assemblea del popolo annuncia l’abbattimento delle barriere per l’ingresso dei capitali esteri nella manifattura, nel vano tentativo di riportare denaro in patria. Ma contemporaneamente, quasi per una beffa, i fondi offshore fanno incetta di investitori
Fuggono i capitali, che non si fidano più della Cina. E fuggono i banchieri, pagati sempre di meno nel nome di quell’apoteosi della morigeratezza costruita da Xi Jinping. Tutti, insomma, giù dalla nave cinese, perché forse la rotta non è così sicura. Quando i lavori dell’Assemblea del popolo volgono al termine, sotto il segno di una crescita fotocopia (Pil al 5% nel 2024, come nel 2023), arriva l’ennesimo colpo di mano nel tentativo di riportare in patria un po’ di fiducia e di denaro.
Dopo mesi di fughe precipitose, Pechino ha deciso di eliminare “tutte le sue restrizioni agli investimenti esteri nel settore manifatturiero” preparandosi “ad aprire ai servizi di telecomunicazioni a valore aggiunto”, come i data center Internet. L’annuncio è arrivato da Jin Zhuanglong, ministro dell’Industria e dell’IT, proprio durante i lavori annuali del Congresso nazionale del popolo. Si tratta di una delle iniziative di Pechino per attrarre gli investimenti dall’estero, crollati ai minimi storici negli ultimi tempi. Ma anche di un gioco rischioso per il Dragone, da sempre allergico a una presenza straniera presso la propria industria. Resta da capire se gli investitori vorranno portare i propri capitali in un contesto dove vigono, oggi più che mai, ferree regole.
Non è certo incoraggiante il fatto che il governo cinese abbia contestualmente assicurato di volersi impegnare nella creazione di un ambiente imprenditoriale basato sulla legge e sulla repressione dei reati finanziari, qualunque essi siano. Non è finita. Altro aspetto, poi, anche questo poco rassicurante, è quello delle politiche per migliorare la qualità delle imprese quotate, in base a quanto riferito da Wu Qing, presidente della China Securities Regulatory Commission (Csrc). La Consob cinese, in altri termini, sta collaborando coi dipartimenti competenti per costruire “un sistema completo di punizione e prevenzione delle attività illegali, come frodi finanziarie, appropriazione indebita di interessi di società quotate e riduzione non autorizzata delle azioni”, ha spiegato Wu.
Insomma, se da una parte la Cina elimina le barriere per l’ingresso di nuovo investimenti, già fa capire che i capitali coraggiosi che muoveranno sul Dragone, non avranno vita facile. I numeri, poi, sono ancora una volta a dimostrare di come le buone intenzioni di Pechino, cozzino contro la realtà dei fatti. Nelle stesse ore in cui l’Assemblea del popolo lancia l’ennesima chiamata ai mercati, i fondi offshore, quelli esterni al perimetro cinese, stanno facendo il pieno proprio di quei capitali fuggiti dalla Cina. Lo dice un dato: le quote di fondi vendute all’estero a gennaio sono aumentate del 50% rispetto all’anno precedente, raggiungendo un livello record, mentre quelle dei fondi comuni di investimento azionari nazionali, dunque in entrata sono scese del 35%, secondo i dati dell’Asset management association of China. Questo al Congresso del popolo lo sanno?