“Italia Paese marittimo: sfide e opportunità”, l’ambasciatore Sessa, presidente della Sioi, ha presentato insieme all’ammiraglio Berutti , Sottocapo di Stato maggiore della Marina, la Summer School dedicata al valore del mare, alle sue enormi potenzialità e alle sfide che un Paese marittimo come l’Italia è chiamato ad affrontare
Un mare non sicuro è un mare costoso, per questo il cluster marittimo va difeso e tutelato. Proteggere il mare significa lasciarlo libero, ordinato da regole condivise, monitorare le sue dinamiche, soprattutto davanti ai cambiamenti climatici che impattano direttamente sulla nostra società, e va monitorato fino ai fondali. È questo ciò che emerge dall’analisi dell’ammiraglio Giuseppe Berutti Bergotto, Sottocapo di Stato maggiore della Marina Militare, intervenuto con l’ambasciatore Riccardo Sessa, presidente della Società italiana per l’organizzazione internazionale, per presentare la Spring School che la Sioi organizza insieme alla Marina Militare e intitolata “Italia paese marittimo: sfide e opportunità”.
Il Mediterraneo, il Mare Nostrum, è rappresentato così in tutta la sua centralità, per l’Italia e non solo. Il bacino è importante per le rotte commerciali, che compongono la maggioranza dei nostri scambi internazionali, ma anche perché ci passano la gran parte delle comunicazioni internet attraverso cavi sottomarini, e poi oleodotti e gasdotti, ed è solcato dalle navi gasiere che portano la materia prima Gnl ai tanti rigasificatori europei (le cui attività sono diventate fondamentali con la differenziazione dagli approvvigionamenti russi). Ma non solo, perché il fondale del Mediterraneo è anche ricco di materie prime fondamentali per la Green Economy, quelle per cui siamo dipendenti attualmente dalla catena di forniture cinese. Ossia, viene disegnato un quadro totale del valore generale della Blue Economy.
Ma al di là delle caratteristiche positive, cresce la consapevolezza sulle vulnerabilità che vengono dal mare. Innanzitutto i chokepoint. Se il corridoio del Mar Rosso non resta aperto, come sta succedendo per colpa delle azioni malevole degli Houthi, allora le merci passano da Capo di Buona Speranza, ma a quel punto non rientrano nel Mediterraneo, piuttosto vanno altrove, usando i porti di Amburgo, Rotterdam, Amsterdam per esempio. E questo marginalizza gli scali italiani, e automaticamente il sistema di porti e retroporti. Non solo: una distanza maggiore dall’arrivo dei prodotti che entrano o escono dall’Europa verso l’Asia produce anche un aumento dei prezzi.
“È per questo che dobbiamo proteggere la libertà di navigazione in quei chokepoint”, scandisce l’Ammiraglio Berutti Bergotto, che usa l’esempio del danno prodotto dalla Evergiven, il cui incaglio accidentale nel 2021 ha chiuso Suez e prodotto 9 miliardi di euro di danno quotidiano all’economia europea. Ora non c’è una chiusura davanti alla destabilizzazione prodotta dagli Houthi, ma il flusso regolare lungo le rotte indo-mediterranee è stato disarticolato, producendo un calo del traffico dal Mar Rosso e un contestuale aumento di circa il 40% delle società di shipping che hanno scelto di affrontare la risalita per Cape Good Hope. Attenzione a questo dato, perché significa che a sua volta c’è stato un calo medio dal 6 al 25% del traffico container nei porti italiani, dato che sono stati usati gli scali dal nord Europa. Tra i più colpiti c’è Trieste, scalo fondamentale per il sistema-Italia e connessione internazionale del Settentrione.
È per tale ragione che, sollecitato da una domanda dal pubblico, l’ammiraglio spiega che “Aspides”, la missione europea per proteggere le navi lungo le rotte infestate dagli Houthi, “sebbene comporti dei rischi per i partecipanti, assume una importanza fondamentale per l’interesse della nazione”. Un’affermazione che ha prodotto un applauso spontaneo dalla platea, segno che certe sensibilità e consapevolezze affiorano ormai tra le collettività (nonostante alcune stanche e ripetitive polemiche politiche).
E vengono in mente le parole di Jack Markell, l’ambasciatore statunitense in Italia che in un altro evento di questi giorni ospitato da Fondazione Med-Or ha commentato che la “Transatlantic Security is Mediterranean Security”, ossia il valore del Mare Nostrum è centrale per la Nato, anche se per shift strategici Washington ha ridotto la presenza fissa nel bacino, orientandosi maggiormente verso l’Indo Pacifico. Cambiamento che ha prodotto un vuoto, che le marine europee sono chiamate a colmare anche nell’ottica che i concetti di Med-Atlantic e Indo-Pacific sono ormai sempre più interconnessi — proprio attraverso quell’Indo Mediterraneo che sta emergendo con forza come costrutto geostrategico, anche collegato all’attuale crisi prodotta dagli Houthi.
Basta pensare che la presenza russa nel Mediterraneo è cresciuta negli ultimi anni, sia di quantità che di qualità, o all’esercitazione in corso questi giorni — Marine Security Belt 2024 — con cui Russia, Cina e Iran sostengono di prepararsi alla gestione della sicurezza marittima manovrando tra le acque del Golfo dell’Oman, a poche centinaia di miglia nautiche dalle acque in cui gli Houthi conducono attacchi attraverso armamenti iraniani, annunciando un lasciapassare speciale per le navi russe e cinesi. Mosca, Pechino e Teheran si esercitano ma non partecipano alla reale sicurezza della principale rotta marittima euro-asiatica, lasciando spazio a speculazioni sulla possibilità che quella in corso sia una campagna di guerra ibrida anti-occidentale orientata contro il Mediterraneo come ambito geostrategico — più che un’iniziativa ideologica a sostegno dei palestinesi e contro Israele e alleati, come sostiene la narrazione dei miliziani yemeniti.
In questo contesto di vuoti di potere colmati anche da attori ostili — come la pirateria, che sta risorgendo sfruttando la caoticizzazione in corso — sono cresciute negli ultimi anni le attenzioni di altri player mediterranei al mare. L’importanza di avere una flotta per salvaguardare gli interessi strategici e commerciali sta diventando una percezione chiara in vari Paesi. Ci sono realtà come quella marocchina e algerina che stanno sviluppando ambiti logistici e capacitivi significativamente rilevanti che potrebbero concorrere nell’area con Gioia Tauro.
Questo ultimo elemento apre a una riflessione ulteriore sul dominio underwater, a cui Berutti Bergotto ha dedicato particolare attenzione, perché “sembra assurdo conoscere meglio Marte che i fondali dei nostri mari”.
L’Italia è la terza flotta per pescherecci in Europa, e conoscere il fondo del mare serve anche per aiutare le attività di superficie oltre che per capire dove poter piazzare tecnologie per le rinnovabili e per ricerca di materiali critici — che, come detto, in un futuro non troppo distante potrebbe essere uno sviluppo importante per il Mediterraneo. “L’Italia è leader nel settore, tramite ricerca universitaria e sviluppo di Pmi altamente capacitive”, spiega l’ammiraglio, che cita la creazione del Polo Nazionale della Dimensione Subacquea come un’evoluzione del pensiero strategico italiano che riunisce tutte queste eccellenze dell’underwater per rinvigorire le attività di monitoraggio e salvaguardia delle strutture subacquee attraverso la condotta di un’operazione denominata “Fondali sicuri”.
E al tema del subacqueo si lega anche quello della connettività: da qualche anno la Nato ha affrontato questo problema con profondità. L’obiettivo è rendere l’Alleanza capace di difendersi e di intervenire rapidamente, e si sta pensando di creare un centro di eccellenza per l’underwater, che potrebbe essere posizionato a La Spezia, dove si trova già il Polo italiano. Ossia in Italia si potrebbero unire le competenze nazionali e alleate sul tema. In definitiva, come sintetizza l’ambasciatore Sessa, sopra e sotto la superficie dell’acqua “l’obiettivo della Marina è di utilizzare il mare in sicurezza”, proteggerne la libertà a favore delle collettività.