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Pressioni internazionali e crisi umanitaria. Ecco perché Bibi manda i suoi a DC

Netanyahu manderà la delegazione a Washington. Dietrofront davanti alla crisi umanitaria e politica che tocca tanto Gaza quanto Israele. Si parlerà dell’invasione di Rafah e di come far fluire gli aiuti per evitare una carestia dichiarata (che sarebbe clamorosa)

Cos’è cambiato dal voto all’Onu per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza deciso il 25 marzo? “Niente – risponde una fonte diplomatica europea che preferisce l’anonimato – quanto meno per ora. Perché quella risoluzione non era vincolante, e come prevedibile Israele ha continuato nella sua campagna militare, facendo anche fronte a un nuovo rash sul fronte libanese”. Non c’è un cessate il fuoco, la richiesta dell’Onu – arrivata per altro in forma tardiva, perché pensata per il mese del Ramadan, che però è iniziato il 10 marzo – non ha portato effetti per ora, né riguardo ai combattimenti né sul piano degli aiuti umanitari.

Ed è da qui, dalla situazione umanitaria che va delineato il contesto. Il Washington Post ha pubblicato oggi nella seguitissima newsletter che si occupa di affari internazionali, un grafico spietato (nell’immagine sotto): mostra la differenza tra gli aiuti arrivati nella Striscia di Gaza in questi cinque mesi di conflitto e quelli che sarebbero dovuti arrivare. Prima di andare avanti, va detto che è un termine di paragone che chiama in causa non soltanto Israele, perché la guerra l’ha iniziata Hamas con l’attacco clamoroso e spietato del 7 ottobre. Il dato dice che il flusso di camion è “diminuito a un rivolo”, come scrive Ishaan Tharoor, curate della newsletter. Gaza può essere raggiunta solo attraverso due posti di blocco, soggetti a lunghe e accurate ispezioni israeliane e afflitti da ingorghi logistici.

Israele sostiene che si tratta di procedure di sicurezza imprescindibili, perché nei traffici degli aiuti si sono nascosti i miliziani (e le armi). Ma metà della gente che vive a Gaza adesso soffre la fame – letteralmente – e il disastro umanitario è stato ormai conclamato anche dal segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.(“Questo è un disastro interamente causato dall’uomo”, ha detto)  Tra il volume dei rifornimenti che sarebbero entrati nella Striscia se non fosse stato per la guerra e quello che è stato consegnato c’è un deficit di circa mezzo milione di tonnellate. Siamo sull’orlo di una carestia, come spiegano i dati dell’Integrated Food Security Phase Classification (Ipc) della Nazioni Unite. Ormai i paragoni della crisi di Gaza sono la Somalia del 2011 e il Sud Sudan del 2017 – uniche due carestie dichiarate ufficiale dall’Ipc.

Ci sono stati anche 32500 morti e oltre 74 mila feriti (dati del ministero della Salute di Hamas, che però sono realistici e anche in altre occasioni in passato lo stono stati). C’è una mobilitazione internazionale che comprende anche l’iniziativa italiana “Food for Gaza” o i lanci di aiuti dagli aerei  – che però sono considerati poco efficaci e soprattutto pericolosi, dato che ci sono stati vari tipi di incidenti – e quel corridoio marittimo da Cipro, che potrebbe essere risolutivo ma stenta a partire. Soprattutto, c’è una serie di critiche molto severe contro Israele – sia a livelli di singoli governi sia sul piano delle agenzie internazionali multilaterali. Ci sono anche le prime mosse durissime, come la sospensione della forniture di armi decisa dal Canada la scorsa settimana (col rischio che sia un precedente).

È questo quadro che complica le circostanze per il governo di Benjamin Netanyahu, che si trova a dover reggere alle pressioni internazionali, di cui la risoluzione sul cessate è solo la più mediatica, mentre ce ne sono altre altrettanto più pesanti. Per esempio, due giorni fa la società di sondaggi più importante degli Stati Uniti, Gallup, ha fatto uscire dati spietati che dimostrano come il 55% degli americani disapprovi le azioni di Israele – percentuale che a novembre era al 45%. Questo numero è importante perché racconta che la posizione è spalmata su entrambi i polarizzati lati della politica statunitense, e dunque entrambi i contender in campo per Usa2024 potrebbero avere necessità di tenerne conto.

Netanyahu ha provato a rimediare in parte con un dietrofront: ha deciso di inviare la delegazione di funzionari governativi a Washington, la cui missione, prima programmata, era stata cancellata dopo che gli Usa si erano astenuti davanti alla risoluzione sul cessate il fuoco. Non cambia niente nemmeno in questo, dunque, e nemmeno nella mossa americana: Washington era consapevole della non-vincolo dietro alla richiesta onusiana e dunque non ha votato come messaggio simbolico – utile nel quadro di quei dati di Gallup e della situazione umanitaria di Gaza. Gli uomini del governo israeliano saranno nei prossimi giorni a DC per parlare dell’invasione di Rafah, operazione che Israele considera fondamentale per debellare Hamas e che gli americani non vogliono (anche in questo cosa per ragioni politiche e umanitarie). Vedremo se qualcosa cambierà dopo quegli incontri.



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