Il partito controlla la banca centrale cinese, la quale finora ha però sempre conservato un piccolo spazio di indipendenza. Ora sembra non essere più tempo di concessioni. Ma secondo gli economisti dell’Università di Zhejiang è un clamoroso errore
Nelle stesse ore in cui il presidente cinese, Xi Jinping, concludeva la sua tre giorni in Europa (qui l’intervista all’economista Alberto Forchielli) su una delle più potenti e importanti banche centrali del mondo, la People bank of China (Pboc) si addensavano nubi minacciose. E il motivo è presto spiegato: tra i tentativi, finora piuttosto vani, di Pechino di rilanciare l’economia del Dragone, da anni fiaccata dalla atavica crisi del mattone e da consumi costantemente depressi, c’è quello di aumentare il grip del partito sulla finanza e le sue istituzioni. A Xi non sembra importare più di tanto del fatto che capitali e paperoni abbiano ormai abbandonato la Repubblica popolare, asfissiati dal governo e dalla sfiducia verso le sue politiche.
E così nel mirino del partito comunista è finita proprio la banca centrale. Premessa: il governatore della Pboc è nominato dal Congresso nazionale del popolo e, pur operando con un certo grado di autonomia, non ha l’indipendenza di un normale banchiere centrale ed è politicamente tenuto ad attuare le politiche del partito. Eppure, sembra proprio che Pechino voglia eliminare anche questo ultimo fazzoletto di terra che separa la Pboc dal governo. Di questo se ne è accorto Herbert Poenisch, senior fellow dell’Università di Zhejiang ed ex economista senior della Banca dei regolamenti internazionali.
Il quale, dalle colonne dell’Official Monetary and Financial Institutions Forum (Omfif), il forum delle banche centrali globali, ha chiarito come “l’indipendenza delle banche centrali dal governo consente loro di adempiere al proprio mandato di garantire la stabilità monetaria e finanziaria. Ma negli ultimi anni le banche centrali sono state soggette a uno spostamento del mandato. La Banca popolare cinese è una delle ultime ad affrontare tali pressioni da parte del suo Stato”.
“Nel 1995, la legge della Repubblica popolare cinese sulla Pboc ha costituito la base per la moderna disciplina in materia banca centrale. Una legge rispettata dalle stesse altre banche centrali, comprese quelle riunite presso la Banca dei regolamenti internazionali e il Fondo monetario internazionale. Ma all’inizio di quest’anno, le sessioni del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza consultiva politica del popolo cinese hanno proposto una revisione di questa legge. Questo perché Xi vuole un sistema finanziario con caratteristiche cinesi: l’indipendenza della Pboc è già fortemente limitata dal partito rispetto alle banche centrali occidentali, ma quanto emerso dal Congresso di marzo significa sottoporre il sistema finanziario ancora di più alla guida del governo”.
Ma quale sarebbe il risultato di questa ulteriore ingerenza? “La comunità bancaria centrale mondiale dovrebbe opporsi a tale palese erosione dell’indipendenza della Pboc. Il compito fondamentale delle banche centrali è già abbastanza complicato, i bassi tassi di interesse hanno causato un’impennata dei prezzi degli asset, mentre l’aumento del costo dei prestiti (il 20 febbraio 2024 la Pboc ha annunciato al contrario, proprio su pressing del governo, un taglio del 25% del tasso di riferimento sui prestiti a cinque anni, da 4,20% a 3,95%, ndr) era l’unica cosa razionale da fare. La banca centrale cinese dovrebbe tornare alle regole dell’indipendenza, altrimenti rischia di essere trasformata in una prosecuzione del partito”.