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Spazio e satelliti, Leonardo punta sull’Europa. Goodbye Usa?

La nuova corsa allo spazio si fa sempre più strategica e l’Europa rischia di rimanere indietro. Leonardo spinge per un’alleanza industriale con Airbus e Thales, primo tassello di un cambio di paradigma che potrebbe ridefinire l’autonomia spaziale del continente. Ma il gap con i competitor globali è ampio e i limiti del modello europeo restano un ostacolo rilevante

Qualcosa si muove nello spazio europeo. O, almeno, ci prova. Non sono passate inosservate in questi mesi le esternazioni di Roberto Cingolani, amministratore delegato di Leonardo, riguardo la necessità impellente di una nuova formula politica e industriale per rilanciare le ambizioni spaziali europee e garantire l’autonomia strategica del continente nelle orbite. Lo si era visto già nel caso del dibattito su Starlink e le comunicazioni strategiche, e adesso, dal salone di Parigi-Le Bourget, l’ad di Monte Grappa lo ha detto chiaramente: l’industria europea deve diventare “capace di competere con tutto il resto del mondo”. In questo contesto Leonardo punta a una space alliance europea e “intende concludere entro luglio” il processo di valutazione di una joint venture con Airbus e Thales sui satelliti. Questo tentativo — su cui Leonardo spinge silenziosamente da tempo — appare come un primo passo verso quel cambio di paradigma di cui l’Europa spaziale necessita disperatamente e che, si auspica, non si limiterà solo alla produzione dei satelliti. Tuttavia, come evidenzia Cingolani rispetto al tema della Difesa, l’autonomia strategica “non è solo una questione di soldi” e i nodi che rimangono da sciogliere sono molteplici, dalla definizione di una strategia industriale che vada oltre la somma delle parti alle implicazioni per il rapporto con gli Stati Uniti.

L’Europa è già fuori dai giochi spaziali?

Quello spaziale è un dossier sempre più strategico per l’Europa, specialmente in un momento storico in cui il continente si trova — obiettivamente — indietro rispetto a vecchi e nuovi competitor. Dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’India e i privati, la nuova corsa allo spazio si gioca oggi in termini di tecnologie dirompenti, capacità orbitali e di numero di lanci. Mentre ogni anno soggetti pubblici e privati non europei lanciano centinaia di satelliti in orbita, pianificano la colonizzazione extra-planetaria e sviluppano tecnologie riutilizzabili, l’Europa stenta a rispettare le tempistiche di progetti vecchi di decenni e continua sistematicamente a tenere basse le proprie ambizioni. Eppure, il continente europeo rimane tra i più avanzati al mondo in termini di know-how, expertise e capacità industriali nel settore. La ragione di questo squilibrio non è dunque da rintracciarsi tanto nella mancanza di capacità, quanto più nella cronica incapacità europea di fare sistema, che spesso si traduce in documenti strategici vaghi e non realmente impattanti. È una storia già sentita altrove: l’Europa ha le carte in regola per competere con i grandi, ma è talmente concentrata sulle sue rivalità interne da perdere di vista il quadro generale. Gli egoismi nazionali, sia da parte di governi che di industrie, hanno prodotto nei decenni un tessuto frammentato, colmo di duplicazioni e rallentamenti, il tutto caratterizzato da una feroce concorrenza intra-europea. Basti pensare alle gelosie di Parigi riguardo il monopolio del mercato dei lanciatori o all’approccio tedesco, caratterizzato da singole iniziative nazionali che di “europeo” hanno ben poco. Oggi, l’emergere di nuovi attori nel settore, la rapida accelerazione tecnologica e la sempre maggiore rilevanza degli assetti spaziali sul piano della sicurezza nazionale impongono tempistiche e scale che l’Europa dei singoli mercati nazionali, semplicemente, fatica anche solo a concepire.

Uno stress-test per l’Europa spaziale

Se il progetto Bromo — così è definito il tentativo di intesa con Airbus e Thales — dovesse avere successo, allora ci sarebbero le condizioni per immaginare un cambio di rotta per l’Europa spaziale tout-court. D’altronde, i satelliti sono solo una parte dell’equazione spaziale. A completare il novero si aggiungono anche le infrastrutture orbitali (stazioni spaziali, hub logistici, punti di rifornimento e attracco ecc.) e i lanciatori, senza i quali anche il migliore e il più avanzato dei satelliti rimane a terra, obbligando gli operatori a rivolgersi a servizi di lancio extra-europei — vedasi SpaceX. In particolare, tutti i grandi player internazionali hanno ormai capito che i lanciatori riutilizzabili (meno costosi e in grado di effettuare diverse missioni) sono il futuro. Invece, in Europa, ci si affida ancora esclusivamente a lanciatori monouso (come Ariane 6 e Vega-C) in un momento in cui persino la giapponese Honda (neofita nel mercato spaziale) testa con successo un primo prototipo di razzo riutilizzabile. Il risultato è che, nella più rosea delle ipotesi, l’Europa può realisticamente puntare a effettuare meno di dieci lanci all’anno, contro i cento e più di Cina e Stati Uniti.

Goodbye Usa?

Inutile girarci intorno, se l’Europa dovesse raggiungere l’obiettivo di porsi come un attore autonomo nello spazio, questo implicherebbe inevitabilmente un cambiamento nei rapporti con l’altra sponda dell’Atlantico. Sino a oggi, l’Europa si è pesantemente appoggiata sugli Stati Uniti per quanto riguarda lo spazio, dalla partecipazione dell’Esa al programma Artemis (che rimane un’iniziativa della Nasa) ai crescenti legami tra le aziende europee (e italiane in particolare) con il mercato spaziale Usa. È il caso di Argotec, oggi tra i principali fornitori europei della Nasa, e D-Orbit, realtà lombarda che ha aperto sedi operative in California e Texas, e che collabora regolarmente con SpaceX. Laddove una space alliance europea dovesse effettivamente prendere piede — magari su modello del consorzio Mbda, a oggi unico esempio di successo di “sistema-Europa” sul piano industriale —, gli Stati europei dovrebbero, giocoforza, muoversi verso l’istituzione di una chiara preferenza continentale. Il punto, in questo caso, non sarebbe tanto quello di allontanarsi dagli Usa, quanto più quello di rendersi autonomi e “immuni” alle discrezionalità di singoli attori come Elon Musk. Come sottolineato da Le Bourget dal ministro Guido Crosetto, “abbiamo bisogno di aumentare le capacità satellitari e recuperare il gap che ormai è troppo elevato, non con gli Stati Uniti, ma con un privato americano”.

Dall’Europa al resto mondo

Lo Spazio sta rapidamente diventando un terreno di competizione dove chi rimane indietro (o forse sarebbe meglio dire, “a Terra”) rischia di non rientrare più in corsa. Se l’Europa non effettua un salto di qualità, i rischi sono molteplici, sia sul piano della competitività economica sia su quello della sicurezza. Difficilmente uno degli spazi economici più floridi del pianeta potrà rimanere completamente isolato dal mercato dello spazio, ma se gli europei non sviluppano capacità indoor, l’alternativa consisterà nel vedere le expertise e il know-how continentali sfruttati a dovere da altri. Non a caso, la statunitense Maxar ha recentemente avviato una partnership con la svedese Saab, proprio nel campo dell’intelligence satellitare, contribuendo ad accentuare la frammentazione dell’industria. Ci è voluto del tempo, ma appare ormai chiaro come Leonardo — in particolare nella persona di Cingolani — punti fortemente sulla creazione di un nuovo ecosistema dello Spazio e della Difesa in Europa che possa poi risultare vincente anche in ottica commerciale globale. Un modello, quindi, che sia in grado di tagliare i ponti con i cortocircuiti del passato e di guardare con reale ambizione al futuro. Quel che resta da vedere è se anche gli altri — tanto nelle cancellerie quanto nei board delle aziende — saranno in grado di fare lo stesso.


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