Skip to main content

Se New York diventa il laboratorio nascosto dell’influenza cinese

Nella Grande Mela, rivela il New York Times, la Cina sperimenta una nuova forma di influenza attraverso una penetrazione silenziosa che passa per associazioni diasporiche e reti comunitarie capaci di orientare le urne e costruire consenso politico nel lungo periodo

New York è il cuore della finanza globale, il simbolo dell’America nel mondo, metropoli di grande e storica eterogeneità etnica, nonché sede della più grande comunità etnica cinese al di fuori dell’Asia. Qui, svela un’inchiesta del New York Times, le elezioni locali si sono trasformate in un laboratorio politico dove Pechino sta sperimentando tecniche di influenza radicate e graduali. Differente dallo spionaggio tout court o dalle aggressive campagne di disinformazione di Mosca, l’influenza del dragone si articola attraverso un modello che penetra nel tessuto comunitario e si serve delle associazioni etniche, diasporiche e di quartiere per influenzare le urne e gli equilibri politici locali.

La struttura tentacolare

L’inchiesta fa luce sul ruolo delle hometown associations, organizzazioni nate decenni fa per offrire sostegno ai migranti cinesi e conservare le tradizioni della diaspora, oggi strumenti di soft power o, meglio, di sharp power, al servizio del Partito comunista cinese.

Dietro la parata folkloristica del Capodanno lunare, le raccolte fondi per le famiglie bisognose o le cene sociali di quartiere, si nasconderebbe un’agenda geopolitica precisa: mobilitare gli elettori, favorire candidati vicini a Pechino e isolare chiunque osi criticare la linea di Pechino su Taiwan, Hong Kong, diritti umani.

Il perno della rete di influenza sarebbe il consolato cinese di Manhattan. Ufficialmente impegnato in attività culturali e cerimonie protocollari, l’edificio di Midtown è oggi il vero quartier generale della diplomazia parallela di Pechino negli Stati Uniti. È qui che i leader associativi vengono convocati per rinnovare la propria fedeltà alla madrepatria e rimarcare le narrative ufficiali del Partito, con l’obiettivo di orientare blocchi di voti nei distretti a forte presenza cinese, veri e propri contenitori di consenso.

Colpire i dissidenti, premiare gli alleati

Come riporta il Nyt, le comunità diasporiche cinesi sul territorio newyorkese fungerebbero da piattaforme per la combinazione di pressioni associative e operazioni di intelligence dirette. E gli esempi non mancano. Yan Xiong, ex leader della protesta di Piazza Tienanmen ora rifugiato negli Stati Uniti, si è visto sabotare la campagna per il Congresso a causa di attività clandestine dirette personalmente da un agente cinese sul territorio, come confermato da documenti giudiziari.

Stessa sorte è toccata a Iwen Chu, senatrice statale di Brooklyn nata a Taiwan: dopo aver incontrato la presidente di Taipei, si è ritrovata emarginata dalle stesse associazioni che in passato l’avevano sostenuta, fino a perdere il seggio.

Al contrario, candidati percepiti come allineati alle posizioni di Pechino hanno potuto contare su endorsement, campagne di mobilitazione elettorale e generose raccolte fondi, che in alcuni casi si sono tradotte in ritorni sotto forma di finanziamenti pubblici alle stesse organizzazioni.

La dinamica è tanto sottile quanto radicata. Molte delle associazioni in questione sono registrate come enti no profit, che dovrebbero per legge astenersi da attività politiche dirette. Ma almeno 19 hanno apertamente sostenuto candidati. Questo in aperta violazione delle regole federali, in un cortocircuito che lega comunità, stazioni di polizia cinese, politica locale e interessi di una potenza straniera.

A rendere il meccanismo ancora più fraudolento è il fatto che, una volta eletti, alcuni politici abbiano convogliato fondi pubblici verso le stesse associazioni che avevano sostenuto la loro campagna, alimentando un circolo vizioso di reciproco interesse.

Il dilemma democratico

L’inchiesta del Nyt fa luce su un fenomeno radicato e con molteplici risvolti, dalla sicurezza nazionale fino all’integrità dei processi democratici, dal livello locale a quello nazionale, americani ed occidentali. Tuttavia, non è certamente un caso isolato.

È il modello con cui Pechino si muove in molte capitali occidentali, dall’Europa al Sud-est asiatico, con un duplice obiettivo: prevenire che la diaspora cinese all’estero diventi un laboratorio di dissenso politico capace di riverberarsi in patria e costruire, mattone dopo mattone, una classe dirigente vicina alle priorità di Pechino. Non importa che oggi si tratti di un consigliere municipale o di un deputato statale.

Come recita un detto cinese, “la formica può divorare l’elefante, se gioca bene le sue carte”. In questo senso, la Cina lavora con gradualità sul lungo periodo, costruendo reti di fedeltà e di influenza fin nei livelli più bassi della politica locale per chi domani potrebbe essere una personalità influente, un senatore o persino un candidato alla Casa Bianca.

La sfida è distinguere tra la legittima attività di rappresentanza di una comunità immigrata e la penetrazione strategica orchestrata da una potenza autoritaria attraverso tecniche di penetrazione politica che mescolano diplomazia consolare, pressione sulle comunità diasporiche e una rete di associazioni locali capaci di incidere sulle urne, riuscendo a utilizzare le regole della democrazia americana contro se stessa, sfruttando canali apparentemente innocui per esercitare un’influenza silenziosa, ma persistente.


×

Iscriviti alla newsletter