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Le sanzioni fanno male alla Russia, ma la Cina salverà Mosca. Messori spiega perché

Il pacchetto numero diciannove di misure ai danni della Russia sarà un altro colpo all’economia dell’ex Urss. Ma finché Pechino comprerà greggio, Mosca sopravviverà. L’Europa negozi con Trump un prezzo massimo di acquisto di oro nero e si convinca che senza mercato unico non si va da nessuna parte. La Francia? Non è l’Italia del 2011, ma può innescare lo stesso una crisi dell’Europa. Intervista all’economista e saggista Marcello Messori

Le sanzioni contro la Russia funzionano e funzioneranno. E anche l’ormai imminente 19esimo pacchetto di restrizioni approntato dall’Europa, avrà il suo effetto. Ma guai a pensare che l’economia russa possa definitivamente collassare. Anche Mosca ha i suoi santi in paradiso. Uno su tutti, Xi Jinping. Così Marcello Messori, economista di lungo corso e saggista, in forze alla Luiss e alla Bocconi, in una conversazione con Formiche.net, che analizza anche la crisi francese e la ricerca di un’identità europea.

L’Europa si appresta a comminare alla Russia il 19esimo pacchetto di sanzioni. Prima o poi l’economia russa non sarà più in grado di sostenere il peso di simili misure, ne conviene?

Penso che, nel medio-lungo periodo, le sanzioni europee incideranno negativamente sull’assetto produttivo russo e, ancor più drammaticamente, sulla vita quotidiana dei cittadini di quel Paese. Aggiungerei che le sanzioni avranno costi rilevanti anche per la Ue. Non dobbiamo però sopravvalutare la forza punitiva europea per due ragioni.

Quali?

La prima è che l’Europa (e gli Stati Uniti) non controllano la maggioranza degli interscambi mondiali. Voglio dire, la Cina e molti altri Paesi del Sud globale stanno sostenendo la Russia mediante acquisti delle sue materie prime e mediante cessioni di vari prodotti (anche bellici). La seconda e collegata ragione è che l’economia russa è stata trasformata, da Putin, in un’economia di guerra. Come tale, essa può trovare un equilibrio di medio periodo che impone sacrifici straordinari alla popolazione e che rende strutturali le importazioni di materiale bellico dai Paesi appartenenti al Sud globale, con il rischio di un occulto trasferimento indiretto anche di materiale prodotto nella Ue.

Il petrolio è però ad oggi l’unica via di salvezza della Russia. Eppure, il prezzo in discesa e il diktat americano affinché i Paesi occidentali la smettano di comprare greggio dalla Russia, potrebbe rivelarsi letale per Mosca. Lo crede uno scenario verosimile?

La mia precedente risposta indica già i limiti di uno scenario del genere, anche se fosse realizzato con pieno successo: è vero che la discesa dei prezzi di prodotti energetici potrebbe indicare una tendenza strutturale a seguito delle strategie di domanda della Cina e di altri Paesi del Sud globale, ma difficilmente tale discesa si accompagnerà a tagli anche di quantità. In ogni caso, le richieste dell’amministrazione Trump verso la Ue sarebbero molto più efficaci se vi fosse un accordo rispetto a un prezzo massimo di acquisto. Il fatto è che questa intesa ai danni della Russia non è accettata da Trump perché potrebbe avere effetti indiretti negativi sull’imposizione alla Ue di acquistare massicce quantità di prodotti energetici statunitensi a prezzi molto elevati. Pertanto, posto che la presidente von der Leyen non reiteri la sua subordinazione rispetto ai diktat trumpiani, non credo che l’iniziativa produrrà effetti significativi.

Nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione von der Leyen ha accelerato verso il completamento del mercato unico. Sará questo il vero scudo europeo contro l’avanzata cinese?

In questo discorso, la presidente della Commissione ha enumerato molti auspici, fra cui anche il completamento del mercato unico in un breve orizzonte temporale, senza peraltro fornire alcuna indicazione circa i processi di attuazione da seguire e i relativi strumenti da adottare. Sul piano economico, tali auspici sono quindi poco credibili fintanto che non vi siano progetti concreti. Ciò detto, è evidente che il completamento del mercato unico fornirebbe all’economia europea la straordinaria opportunità di non far dipendere la propria crescita dal traino delle esportazioni nette. Il problema è che una crescita trainata dal mercato unico si potrebbe realizzare in modi efficienti e compatibili con il benessere europeo, solo se la Ue fosse in grado di ridurre i suoi ritardi innovativi rispetto alla frontiera tecnologica internazionale. Il che richiederebbe, come già detto, quel salto dell’integrazione europea che è osteggiato dal nazionalismo di molti Stati membri.

Parigi si è improvvisamente scoperta fragile, vulnerabile e instabile. E dalle agenzie di rating è arrivata una prima punizione. Quali a questo punto le strade per Parigi per uscire dal guado?

L’economia e la società francesi sono, da tempo, in una situazione di fragilità. La forza dello Stato centrale e dell’apparato amministrativo non è bastata per garantire un equilibrio fra le spinte innovative delle grandi imprese industriali e dei servizi avanzati, da un lato, e le protezioni delle componenti più tradizionali e a rischio di emarginazione, dall’altro. Quando vari decenni fa vi è stato un drammatico indebolimento dei corpi intermedi francesi, a cominciare dai sindacati, la ricerca di questo equilibrio non si è più fondata su una difficile ma positiva sintesi fra i diversi obiettivi delle varie componenti sociali ma è scaduta nella difesa di posizioni di rendita tra gruppi contrapposti. La crescente frattura fra quanti avevano accesso alla conoscenza e all’innovazione tecnologica, ed erano quindi aperti al cambiamento, e quanti detenevano competenze obsolete e non avevano la possibilità di riqualificarsi, ed erano quindi arroccati in difesa di vecchi privilegi, è stata a lungo nascosta da generose erogazioni di spesa pubblica a livello nazionale e dall’asse tra Francia e Germania a livello di Unione europea. E quando, per ragioni diverse, tali fattori politicamente sovradeterminati sono venuti meno, le debolezze dell’economia francese sono diventate palesi sia all’interno che nella Ue.

Una via d’uscita ci sarà, però…

Se tale diagnosi fosse corretta, la punizione delle agenzie di rating non sarebbe altro che una tardiva certificazione di problemi strutturali che vanno risolti. Per affrontare tali problemi, la Francia non deve rinunciare ai punti di forza della sua economia innovativa ma deve renderli compatibili con l’inclusione sociale, ricostruendo spazi politico-istituzionali per una sintesi fra diversi obiettivi. Ciò è possibile solo con una centralizzazione europea degli investimenti che, nel solco del rapporto Draghi, trasformi gli avanzamenti tecnologici in una crescita stabile e di lungo periodo. L’interrogativo, che investe oggi la Francia ma che riguarderà molti altri Paesi europei, è se l’affermarsi di governi nazionalisti nella maggioranza degli stati membri della Ue non sia un ostacolo che, almeno a breve termine, bloccherà ogni processo di centralizzazione europea.

Qualche osservatore ha accostato il caso francese a quello italiano del novembre 2011. Vede delle analogie e quali i rischi, in potenza, per l’Europa?

Quanto ho appena detto, dovrebbe sottolineare che l’attuale forza economica della Francia è maggiore sia di quella dell’Italia (o della Spagna) nel 2011 sia di quella dell’Italia oggi. Mentre il nostro Paese continua a disporre di pochissime grandi imprese e di un numero limitato di medie imprese innovative nel settore manifatturiero ed è ancora più arretrato nei servizi, la Francia vanta un’incidenza di grandi imprese industriali e di servizi avanzati che si conferma al di sopra della media Ue. Pertanto, se fra l’aprile e il settembre 2011 l’euro area euro e la stessa Ue subirono forti lacerazioni a causa di una crisi dei debiti sovrani che si fondava su una grave crisi economica, oggi il rischio di instabilità del bilancio francese è mitigato dalla forza economica della sua economia. Per giunta, nel 2011, la crisi dei debiti sovrani si intrecciò con una crisi altrettanto drammatica del settore bancario europeo, oggi, quest’ultimo settore si è molto rafforzato. Infine, sempre nel 2011, l’eurozona e l’Ue utilizzavano per la prima volta temporanei e inadeguati meccanismi di stabilizzazione e programmi di aiuto, per di più ostacolati da regole fiscali sempre più rigide e di corto orizzonte. Oggi la Ue dispone, invece, di strumenti di intervento molto più articolati e di una più efficace combinazione fra politica monetaria e politica fiscale.

Allora ogni paragone non ha molto senso…

Sì, penso che ogni paragone con il 2011 sia errato perché l’economia francese di oggi non è paragonabile a quella, ben più precaria, dell’Italia nel 2011. Inoltre, anche ipotizzando che l’instabilità economica della Francia peggiori, la Ue disporrebbe di efficaci meccanismi di stabilizzazione. Ciò non significa che il mio relativo ottimismo sul piano economico si trasferisca, in modo meccanico, al piano politico. Rispondendo alla precedente domanda, spero di aver chiarito che la soluzione non può essere solo economica ma deve essere soprattutto politica perché richiede sia un rafforzamento della coesione sociale in Francia e altrove sia – soprattutto – una cessione di sovranità nazionale a favore delle istituzioni europee. Temo che il clima politico prevalente in molti Stati membri della Ue impedisca tale cessione. Se così fosse, la Francia non sarebbe in grado di dare un’efficace soluzione ai suoi problemi strutturali entro il perimetro nazionale.

Quindi un rischio francese per l’Europa, c’é?

Sommandosi alle sempre più drammatiche pressioni geo-politiche, la crisi francese indebolirebbe ulteriormente il ruolo della Ue schiacciato dal conflitto bilaterale fra Stati Uniti e Cina. Un’Europa delle nazioni perderebbe ogni forza a livello internazionale e comprometterebbe il mercato interno. A quel punto, i libri di storia del futuro daterebbero l’inizio del declino europeo e dello smantellamento del suo stato sociale in coincidenza con la crisi francese. Ma sarebbe solo un problema di datazione!


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