“La ribellione degli scheletri”. Così, ricorrendo a un’espressione del filosofo Antonio Labriola, Giuseppe Caldarola aveva riassunto nei primi giorni di luglio le accuse di autoritarismo e centralismo rivolte dalla minoranza del Partito democratico all’iniziativa riformatrice del governo di Matteo Renzi. Critiche che oggi vengono riproposte per bocca di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema: “No a un Pd movimento politico-elettorale del premier. Sì alla separazione tra Presidente del Consiglio e numero uno del Nazareno”.
Ad esse vanno aggiunte le polemiche assenze di Giuseppe Civati e Gianni Cuperlo dal palco della Festa nazionale dell’Unità. E a rendere più ostile il clima attorno all’esecutivo è poi il ginepraio di editoriali sferzanti comparsi sui grandi giornali e i rilievi pungenti mossi dal gotha economico verso la scarsa incisività e concretezza dell’iniziativa di Palazzo Chigi.
È possibile che tutti i severi giudici di Renzi abbiano compreso soltanto ora che l’ex sindaco di Firenze non incarnava le virtù taumaturgiche evocate in coro nella fase della sua ascesa al potere? Formiche.net lo ha chiesto proprio a Caldarola, giornalista di lungo corso, già direttore dell’Unità oltre che ex parlamentare dell’Ulivo e dei Ds.
Caldarola, perché Bersani e D’Alema sono tornati all’offensiva contro Renzi?
Si tratta di due personalità che hanno sempre portato avanti un’opposizione aperta nei confronti dell’attuale leader del Partito democratico. Massimo D’Alema ha alternato brevi momenti di feeling con lunghe fasi di scontro. Che ora hanno il sopravvento. Ma che non sono sorprendenti, vista la divergenza incolmabile nella visione di partito.
Qual è la differenza?
L’idea propugnata dalla minoranza del Nazareno è quella di un partito socialista pesante e strutturato, con un programma poco pragmatico e procedure formalizzate nella vita interna. L’orizzonte portato avanti dal premier è una formazione carismatico-plebiscitaria fondata sul prestigio del leader uscito vincente da una prova elettorale e su un programma allestito strada facendo, come rivela il piano scuola messo a punto dall’esecutivo. Ma vi è un ulteriore elemento che rende i loro rapporti difficilmente componibili.
Di cosa si tratta?
Renzi convoca il gruppo e gli organi dirigenti del Pd per giocare e vincere tutta la posta in gioco. È in grado di farlo grazie a una dinamicità assente in una generazione di leader protagonisti di sconfitte dolorose.
Ritiene credibili i giudizi aspri di un ceto dirigente che deve la propria sopravvivenza politica a Renzi, di cui favorì l’ascesa a Palazzo Chigi quasi all’unanimità?
La vecchia guardia si è rivolta all’ex primo cittadino di Firenze come all’inizio della vita del Pd si rivolse a Walter Veltroni. Figura che incarnava in forma genuina la novità politica cui si voleva dar vita. La differenza risiede nel carattere dei due personaggi. L’ex sindaco di Roma ha sempre voluto coinvolgere e comporre le diverse culture interne. Renzi, pur confrontandosi con esse, procede per la propria strada. Sa qual è il paradosso?
No.
È stato il premier, una volta eletto segretario, a promuovere l’ingresso del Partito democratico nel PSE. Smentendo così la dicotomia tra Pd di stampo statunitense e il sogno di una forza socialista europea. E facendo cadere l’accusa di voler creare un soggetto estraneo alla sinistra. Mondo che fino a poco tempo presentava un mare di proposte per la radicale riforma del Senato, ed era fortemente ostile all’istituto delle preferenze nella legge elettorale.
Vede il rischio di un Pd destabilizzato e destabilizzante nei confronti del proprio governo oltre che verso se steso?
Sì. Il giorno in cui il Presidente del Consiglio non sarà più leader del Nazareno, il successore dovrà avere una caratteristica mancante nei segretari che si sono alternati prima di lui alla guida del Partito democratico: l’elemento carismatico. Grazie al quale l’ex fautore della Rottamazione ha vinto una tornata elettorale non costruendo coalizioni ma realizzando la vocazione maggioritaria propugnata da Veltroni.
È questa la strada vincente?
Ci vuole una figura capace di affermare la dinamicità e la potenzialità maggioritaria di un partito di rango occidentale. Altrimenti il Pd potrebbe liquefarsi. Perché in politica non si torna mai indietro.
Condivide le critiche mosse dalla grande stampa e dall’establishment verso l’operato del premier?
La luna di miele editoriale-industriale nei confronti del governo è durata finché Renzi veniva percepito come il liquidatore della tradizione post-comunista. Poi ha cominciato a prendere piede l’insoddisfazione verso l’azione di un premier più affine al “cavallo scosso” del Palio di Siena che ai fantini.
I fantini?
I leader progressisti o democratico-cristiani su cui il ceto economico-finanziario e mediatico italiano hanno sempre puntato. Verso i quali Eugenio Scalfari e Lucia Annunziata non hanno alzato la voce come nei confronti dell’attuale premier.
Le critiche del gotha economico non hanno fondamento?
La classe imprenditoriale non può certo scagliare la prima pietra, visto che è corresponsabile della crisi italiana. Compreso il rappresentante più brillante e intelligente di quel mondo come Sergio Marchionne. La sua Fiat ha conservato nel nostro tessuto produttivo pochi stabilimenti, mentre ha trasferito cervello e sedi operative all’estero.
Chicco Testa con Formiche.net ha affermato che in Italia continuano ad agire forze politiche, sociali, economiche orfane della spesa pubblica e contrarie a qualsiasi tipo di cambiamento.
Concordo con la sua analisi. Renzi, per impronta genetica, non è integrabile. Tuttavia, se vuole confrontarsi con i “vecchi salotti dell’economia” e incalzarli sulle sfide imprenditoriali, lo può fare utilmente prospettando la direzione di marcia dell’Italia. Perfino Barack Obama ha giocato la reputazione ed è intervenuto in prima persona contro la crisi industriale automobilistica Usa.
È possibile farlo in Italia?
Lo spero. Ma negli ultimi 25 anni nessun premier ha fissato le priorità economiche e industriali nazionali, individuando le scelte strategiche da compiere e i comparti su cui orientare gli investimenti: tecnologie, ricerca, cultura, moda. La miracolosa crescita italiana del dopoguerra fu realizzata grazie al ceto dirigente della Democrazia cristiana che, con l’apporto costruttivo di una sinistra imbevuta di cultura produttivistica, scelse di puntare sul settore siderugico e automobilistico.