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Il Corriere della Sera e i poteri forti già renziani spernacchiati da Renzi

Silvio Berlusconi e Matteo Renzi ovvero Silvio Renzi e Matteo Berlusconi. Noi non sappiamo con certezza  – anche se saremmo disposti a metterci la mano sul fuoco – se i due si telefonino spesso, ben oltre gli incontri ufficiali al Nazareno o altrove.

Di sicuro Matteo Renzi ha studiato con cura le mosse dell’ex Cavaliere e, nei passaggi cruciali, si comporta come lui. Tralasciamo per amor di patria il modo con cui i due leader replicano agli sfottò della stampa internazionale (e segnatamente al perfido Economist) e concentriamoci sulla giornata in cui quel Sancho Panza che ci governa ha sbattuto la porta in faccia all’establishment riunito sul lago, ospite dello Studio Ambrosetti e si è recato a Brescia ad un incontro di industriali al grido: ‘’Io vado dai padroni che investono e non da quelli che fanno salotto’’.

Che poi gli imprenditori bresciani investano è tutto da dimostrare, ma di certo rappresentano lo zoccolo duro del mondo imprenditoriale, eredi dei “padroni delle ferriere’’ produttori del tondino e di armamenti leggeri, dedicati prioritariamente a quell’attività venatoria che, da quelle parti, è quasi una religione.

RENZI COME BERLUSCONI?

Alla platea bresciana, Renzi Tambroni ha fatto il discorso che i presenti volevano sentire: duro e trucido, minaccioso e golpista allo scopo di fornire un minimo di credibilità a promesse tanto generose da essere smentite seduta stante, se soltanto chi le ascolta, anziché spellarsi le mani applaudendo, si cimenta in un modesto ‘’conto della serva’’ per quantificare all’ingrosso le risorse occorrenti. E mancanti.

Ma perché il Renzi che sbertuccia il paludato parterre di Cernobbio, e si reca a Brescia, ci ricorda Berlusconi? Correva l’anno 2006, gli italiani si apprestavano a votare  a conclusione di una legislatura in cui aveva governato ininterrottamente il centro destra. I sondaggi erano tutti favorevoli alla vittoria dell’Unione (17 partiti e partitini coalizzati da Romano Prodi). A Vicenza si svolgeva l’assemblea della Confindustria. Il giorno prima era stata la volta del Professore bolognese, a cui tutto si può chiedere tranne che di essere brillante e spigliato.

Poi era arrivato il ‘’Berlusconi day’’. ll Cavaliere salì alla tribuna – addolorato e claudicante a causa di una sciatalgia non diplomatica – ma egualmente pimpante e combattivo. Non erano più i tempi di Parma 2001, ma nel cuore della fortezza veneta Berlusconi poteva legittimamente sperare in una platea (la base della Confindustria) a lui largamente favorevole, nonostante le reticenze e i distinguo dei vertici.

CORREVA IL 2006…

E così fu. Un imprenditore – ora segnalato per essere un ex sostenitore deluso di Pier Matteo Renzi Tambroni – osò interloquire dalla sala: un gesto che scatenò una replica piccata di Berlusconi, accolta da una standing ovation. Il presidente Montezemolo, evidentemente imbarazzato, deplorò l’avvenimento, ma ormai era fatta: Vicenza divenne la linea del Piave della riscossa del Cavaliere che recuperò consensi a man bassa, fino a perdere per poche migliaia di voti (contestati) e di rimandare di due anni (nel 2008) una vittoria di quelle che così non si erano mai viste (prima di allora).

Brescia 2014 come Vicenza 2006, con diversi protagonisti, allora? Gli eventi non sono completamente sovrapponibili. A Vicenza, Berlusconi arrivò portandosi appresso un’aura di sconfitta; Renzi Tambroni gode ancora dei riflessi della vittoria elettorale di maggio anche se sta andando, a marce forzate, verso ‘’l’inverno del nostro scontento’’.

Berlusconi non era tollerato dall’establishment; Renzi ne è la creatura prediletta, il beniamino, l’invenzione. Questo ragazzotto fiorentino starebbe ancora a giocare a calcetto nel campicello della parrocchietta se non fosse stato sollevato di peso dai poteri forti, finanziato con le loro risorse, blandito e sostenuto dai loro giornali e tv.

RIFIUTO DEI SALOTTI 

Ecco perché il rifiuto di andare a Cernobbio è un atto di ingratitudine e di arroganza: quindi una manifestazione di debolezza. Matteo Fanfan Renzi, però, ha calcolato la mossa (ci chiediamo anche se dietro non ci sia lo zampino del ‘’consigliere’’ Denis Verdini, per conto del capo in testa) che si iscrive nel perseguimento di quell’impostazione populista (che cosa c’è di meglio, allora, del prendere a pernacchie i signori del potere?) che acquista sempre più peso nella sua azione politica, con l’evidente obiettivo di andare al voto, non tra mille giorni ma nella primavera prossima.

Negli ultimi tempi si è aperto un dibattito (ridicolo vista la modesta stazza del personaggio) che invita Renzi ad imitare Gerard Scroeder: ad impegnarsi, cioè, sul terreno delle riforme a costo di perdere il consenso. Il nostro non ci pensa neppure: il bonus degli 80 euro, le 150mila inutili assunzioni nella scuola, il basso profilo imposto al ministro Poletti sulla delega al Senato, le riforme istituzionali di Maria Elena Boschi Callipigia sono provvedimenti che servono a recuperare facile consenso da spendere al più presto per una ‘’prise du pouvoir’’ in tutti i modi e ad ogni costo.

Ma a Cernobbio poteva capitare che, seppure con molto garbo e chiedendo in anticipo scusa, qualcuno dei partecipanti fosse costretto a sollevare dei dubbi sulle “magnifiche sorti e progressive’’ dell’Italia. Ma questo Matteo Sancho Panza Renzi non può permetterselo.

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