Skip to main content

Arcelor, Emirates Steel e Jindal, perché l’Ilva non è un ferro vecchio

La notizia comunicata ai sindacati del possibile interesse, oltre ad Arcelor Mittal, dell’altro gruppo indiano Jindal all’acquisto dell’Ilva – cui si affiancherebbe anche quello dell’azienda siderurgica Emirates Steel Industries – evidenzia ancora una volta, ammesso che ve ne fosse bisogno, che il patrimonio impiantistico del sito di Taranto rappresenta un asset tecnologico di assoluta rilevanza, meritevole perciò di grande attenzione e di accurate valutazioni da parte di possibili acquirenti. Se fossimo stati in presenza di una struttura obsoleta e alle soglie di un ormai imminente default produttivo, perché mai lo stabilimento ionico avrebbe dovuto attirare tanti big player operanti in un settore che per giunta registrerebbe in Europa, almeno in questa fase del mercato, un surplus di capacità ?

In realtà, la verità sul Siderurgico di Taranto è ben altra ed è più forte di qualsiasi propagandismo negativo che ispira le posizioni di settori estremistici dell’ambientalismo locale che da anni vorrebbero la dismissione coatta del sito. Per dimostrare cosa la grande fabbrica continui a rappresentare per coloro che vi lavorano e per tutta l’economia provinciale non è necessario richiamare ancora una volta quella che è stata nella prima settimana di settembre l’apprensione dei dipendenti dello stabilimento in merito al pagamento il 12 prossimo venturo di salari e premi di risultato, assicurata dal Commissario Gnudi. Tutti sanno a Taranto e nel suo hinterland quanto incida il Siderurgico nell’economia del territorio: lo sanno bene anche quegli ambientalisti che ipotizzano di sostituire il ruolo dell’Ilva nel contesto economico locale con altre iniziative produttive certamente utili, ma inidonee ad assicurare un pil pari a quello generato dal Siderurgico.

L’interesse di grandi gruppi esteri invece dimostra la persistente appetibilità del sito di cui dovranno essere conservati integri assetti di marcia e livelli occupazionali, completando la realizzazione dell’Aia. Certo, è del tutto evidente poi che – qualora si passasse all’analisi del costo e delle modalità di un’operazione di acquisto o di ingresso nel capitale sociale della società controllante – le mosse dei potenziali acquirenti si farebbero molto caute, non solo per i costi dell’Aia da completare, ma anche per le complesse vicende legate a richieste già pervenute di risarcimenti per danni da inquinamento – da valutarsi poi in Tribunale – e a vicende giudiziarie che anche per il futuro potrebbero interessare il sito e la sua conduzione.

Intanto è opportuno ricordare – qualora qualcuno lo avesse dimenticato – che la Riva Fire è tuttora l’azionista di controllo dell’Ilva nella quale v’è anche una partecipazione del 10% del Gruppo Amenduni, noto per le sue Acciaierie Valbruna, specializzate negli acciai speciali, e per la fabbrica di macchine olearie insediata nell’area industriale di Bari. Tali due azionisti non hanno manifestato – soprattutto il primo – o almeno non lo hanno fatto sino ad ora, il proposito di vendere l’Ilva: anzi Claudio Riva ha dichiarato in un’intervista che la sua holding è pronta a fare la propria parte per una ricapitalizzazione della società, auspicando di non essere lasciata sola in tale disegno.

Nuovi azionisti – qualora si determinassero tutte le condizioni per il loro ingresso – dovranno allora avere il gradimento dell’attuale proprietà con la quale convivere, almeno sin quando essa decidesse di conservare quote nell’azienda. E’ bene ribadire questa ovvietà, perché di tanto in tanto si leggono perentori inviti di qualcuno ad estromettere dall’Ilva pur commissariata la Riva Fire, come se quest’ultima non fosse più legittimata a conservarne la proprietà.

Insomma, ad onta di tutto quello che è accaduto dal 26 luglio del 2012 – ed è questo l’elemento che tutti (nessuno escluso) devono avere ben chiaro – lo stabilimento di Taranto deve continuare a produrre nella pienezza delle sue capacità e nell’integrale rispetto della nuova Aia, non solo perché assicura lavoro ad oltre 20mila addetti fra diretti e indotto, ma anche perché rappresenta un grande e non facilmente rimpiazzabile patrimonio tecnologico del Paese, da salvaguardare ancora a lungo in futuro anche con l’apporto di altri capitali privati italiani ed esteri ed auspicabilmente con una partecipazione significativa – a tutela degli interessi dell’Italia – del Fondo strategico italiano della Cassa depositi e prestiti.


CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter