C’era una volta Walter Veltroni. Il primo segretario del Partito Democratico è stato il politico italiano che più seriamente si è ispirato al mondo americano. Non a caso fin dal nome la sua creatura aveva riferimenti ideali che andavano dietro alla tradizione della sinistra statunitense, con tanto di citazioni esplicite di John Kennedy e del nascente Barack Obama.
Certo, ben presto le intenzioni ottimiste di quella fase palingenetica del progressismo italiano sono finite malamente, e il progetto si è arrestato davanti alla difficoltà di conciliare la tradizione socialista e quella popolare, conservando di moderno soltanto il nome. Poi è arrivato Matteo Renzi e tutto questo moto ideale di internazionalizzazione è finito nel cestino della rottamazione.
Nonostante tutto, guardare oltreoceano è sempre un fatto positivo, se si tiene conto delle debite differenze e della relative incompatibilità. Oggi, poi, che si discute con passione su una necessaria rifondazione del centrodestra non è possibile neanche immaginare un progetto culturale minimamente sensato senza riferirsi al Partito Repubblicano, vale a dire a quel Grand Old Party che raccoglie dentro di sé liberali, conservatori e tradizionalisti americani.
Oltretutto da noi, molto più che a sinistra, dove regna una storia radicalmente anti americana perché estranea al liberalismo, il centrodestra potrebbe attingere da quella sorgente d’ispirazione molti spunti e forse qualche produttiva, futura alleanza internazionale.
Tanto per cominciare, il loro non è un partito nel senso europeo del termine. Al suo interno si sostanziano e distinguono tante linee culturali, e altrettanti interessi in corrispondenza dei molteplici Stati che compongono l’Unione. Jeb Bush, Sarah Palin, Condoleezza Rice e Rick Santorum hanno forse meno in comune tra loro di quanto non abbiano Matteo Salvini, Angelino Alfano e Giorgia Meloni.
Ma questo aspetto di eterogeneità, al contrario nostro, è indubbiamente un vantaggio, perché permette agli elettori di comprendere meglio come la politica non abbia bisogno di tante idee diverse ma di tanti leader eterogenei e competitivi, specialmente all’interno di ogni partito.
Il cartello culturale della destra americana è, insomma, sufficientemente chiaro e ampio da lasciare margine per stili, visioni e appartenenze elettorali diversissimi. Ciò nondimeno, fatto per nulla trascurabile, la matrice ideale di fondo è unica, molto netta, profondamente omogenea e, soprattutto, immutabile, da quando Thomas Jefferson ne piantò il seme due secoli fa.
Il programma attualmente condiviso dai candidati alle elezioni di medio termine, ad esempio, è già quello che tra breve lancerà la sfida per le primarie alle presidenziali del 2016, ed è lo stesso di sempre. I valori non si cambiano, i candidati invece sì. Perciò è d’obbligo per ogni pretendente repubblicano smarcarsi personalmente dagli altri suoi simili, distinguendosi idealmente solo dai democratici in tutto e per tutto.
Ma quali sono, in definitiva, i riferimenti di fondo di questa imponente destra americana?
In primo luogo, la fedeltà a una concezione della vita che gli americani dicono “costituzionale”. Vale a dire quella serie di principi che sono stati enunciati solennemente nella Dichiarazione d’indipendenza. La sovranità di un popolo che è un ‘noi’, cioè una soggettività comune e attiva, sorretta da una serie originaria, ossia non derivabile da altri se non da Dio, di rights of citizen, di diritti umani fondamentali. Di qui si ricava una fortissima connotazione comunitaria e responsabile della democrazia, ancorata al valore del ‘self’: self-discipline, self-reliance, self-government, self-defense.
Marvin Olasky, seguendo alla lettera un grande conservatore cattolico connazionale Russell Kirk, ha definito la visione anti ideologica e anti progressista dei Repubblicani un “conservatorismo compassionevole”, dottrina sposata poi a pieno dal religiosissimo George W Bush.
La vita personale è divina, sacra, e i diritti della persona si collegano alla famiglia come cellula fondamentale della società e a tutte quelle associazioni che rendono possibile la solidarietà autonoma ed efficace della comunità locale al suo interno, il cosiddetto terzo settore di cui tanto si parla qui in Italia.
Se cresce l’efficacia di questi modi liberi e organizzati di rispondere alle esigenze sociali, aumenta la libertà, si afferma la solidarietà e diminuisce l’incidenza oppressiva e dannosa dello Stato.
Un aspetto interessante è che al governo nazionale, federale, viene riconosciuto un ruolo importante, forte, perfino decisivo, ma le sue funzioni sono di sussidiarietà e si esplicano nel fare da partner alle associazioni dei cittadini, finanziandole, sostenendole, catalizzandone gli obiettivi, facendole nascere o implementandone le funzioni mediante forti defiscalizzazioni.
Ora, che tale spinta a rendere autonoma la società avvenga nella linea del mercato, in quella delle organizzazioni religiose o attraverso il sostegno alle comunità naturali, in primis la famiglia, dipende moltissimo dai singoli contesti.
La cosa importante è che niente può essere delegato allo Stato e ad altre istituzioni lontane se può essere fatto prima e meglio da quelle vicine. Sussidiarietà, quindi, ma anche una politica che privilegia l’Inner Change, vale a dire il cambiamento interiore dei cittadini, piuttosto che i sussidi o le politiche assistenziali, tipiche della sinistra. Tutti i candidati repubblicani sono a favore dell’individuo, del valore culturale della religione, della libertà di coscienza, a prescindere dalla confessione cristiana, non cristiana o agnostica di ciascuno.
Molti degli argomenti utilizzati dai Repubblicani contro le invadenze dello Stato federale potrebbero essere applicate perfettamente da noi all’Unione Europea, organismo utile e necessario se adempisse al compito che gli è proprio, ossia di essere ausilio degli Stati, di per sé autonomi e tendenzialmente autosufficienti, e dei cittadini sovrani. Ma niente più di questo.
Due principi poi sono condivisi generalmente da tutti i Repubblicani: difesa della vita, vale a dire un orientamento pro-life, e ruolo della politica come “servizio” ai cittadini, e mai come potere sulle loro libertà. Un ultimo accenno deve essere fatto all’economia e alla difesa. Per la destra si tratta di valorizzare le risorse naturali presenti sul territorio, in particolare energia e agricoltura, e garantire la sicurezza e autonomia interna delle piccole comunità di cui si compone la nazione. La politica dell’immigrazione deve seguire legalità e integrazione, mai licenza e clandestinità.
Il politico, infatti, ha una missione etica e non economica, interiore e non esteriore, volta a garantire l’uguaglianza originaria delle persone e la morale pubblica, senza livellare i meriti che sono propri di ciascuno e le enormi varietà di talenti che compongono il genere umano. Una politica sociale troppo diretta e spinta dello Stato privilegerebbe una classe o un gruppo di cittadini a scapito di altri, commettendo ingiustizia e stabilendo indebite disuguaglianze.
Un programma semplice, tutto sommato, e molto più convincente e condivisibile dei tanti progettini di casa nostra. In America le persone di centrodestra non sono tutte uguali, ma nessuno di loro è di centrosinistra e tutte condividono che vita, persona, famiglia, comunità e democrazia sono valori assoluti e inseparabili. Viene privilegiata nella gestione del governo la prudenza, la gradualità, la limitazione delle riforme alle battaglie ideologiche, al massimalismo e all’estensione delle spese dello Stato sociale.
Perciò l’individualismo, in realtà, non è il vero presupposto politico della destra americana, e non dovrebbe esserlo neanche da noi, perché solo una forte comunità organizzata autonomamente è in grado di difendere la singola persona dall’invadenza del potere pubblico e degli interessi stranieri. Quando l’individuo, per contro, è ridotto a organismo monocellulare, ha continuamente bisogno di essere nutrito dalla politica per poi essere schiacciato dallo Stato.
Mi si dica in conclusione perché in Italia noi moderati non dovremmo non sentirci americani. Anzi, diciamo meglio, Conservatori Repubblicani. E perché dovremmo rinunciare ad avere pochi valori comuni e molti candidati che si sfidano tra loro.