Nessuna conoscenza di un accordo perseguito o stipulato tra apparati istituzionali e rappresentanti di Cosa nostra. Nessun “turbamento” per l’allarme lanciato da forze dell’ordine e intelligence su possibili attentati alla sua persona nel 1993. Nessun riscontro oggettivo ai timori manifestati dal consigliere giuridico Loris D’Ambrosio: essere stato considerato “un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi” quando lavorava al Ministero della Giustizia.
Lasciano pochi margini a letture e interpretazioni le risposte più significative fornite dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel corso dell’audizione svolta al Quirinale dalla Corte d’Assise di Palermo, chiamata a giudicare sulla presunta trattativa fra Stato e criminalità mafiosa nel biennio delle stragi 1992-1993. Una testimonianza ritenuta umiliante e surreale da Mario Sechi, editorialista del Foglio, commentatore di Radio24 e già direttore del Tempo.
La deposizione del capo dello Stato al processo di Palermo si è risolta in un nulla di fatto?
È uno dei più gravi errori mai commessi dalla giustizia italiana. Errore politico e giuridico al contempo. Un pasticcio che non fa onore a chi lo ha provocato. Vi sono istituzioni che meritano di essere preservate da ogni tipo di interferenza, strumentalizzazione, offesa. E una di queste è la Presidenza della Repubblica. Giorgio Napolitano non doveva neanche essere chiamato a testimoniare. Detto questo, Napolitano ha offerto, ancora una volta, un esempio di come si interpreta il ruolo di uomo di Stato.
Per quale ragione è stato chiamato a testimoniare?
Si è creato un cortocircuito istituzionale incredibile, costringendo, in un certo senso, la più alta carica dello Stato a stare metaforicamente nello stesso “luogo” di mafiosi condannati per strage. La feccia della criminalità. Come se Barack Obama fosse chiamato a deporre nella stessa aula con John Gambino. Quando ha colto il rischio tangibile di un colossale pasticcio, la magistratura ha provato a mettere un cerotto impedendo la presenza degli imputati. Una pezza che non tappa il buco, perché crea un motivo probabile di nullità del processo. Ma non è questo il fatto importante, ripeto, il tema è politico: una parte della magistratura non fa processi, vuole riscrivere la storia. E lo fa male, perché non è il suo mestiere.
La testimonianza del presidente della Repubblica non può contribuire a gettare luce su una pagina oscura della storia repubblicana?
L’Italia è uno strano posto. Tutto ciò che non può essere spiegato secondo certi teoremi giudiziari diviene automaticamente oscuro e misterioso. Ma non si dice la cosa più semplice. E cioè che non esiste il fatto a fondamento del castello accusatorio. Più che mai fragile. Si tratta di avvenimenti di cui il presidente della Repubblica non sa nulla. E la sua testimonianza l’ha ampiamente confermato: nessuna notizia rilevante è emersa nel corso dell’audizione al Quirinale. È stato offerto un pessimo servizio alla giustizia e alla ricostruzione storica. Io e lei, a tavolino, potremmo descrivere questo scenario: in guerra si tratta sempre, dunque c’è stata una trattativa con la mafia per evitare stragi. Ma questa è una ipotesi, non un fatto provato. Mancano le fonti. E così la faccenda si è trasformata in fiction.
Il processo di Palermo è ispirato da una “logica teatrale”, come ha detto a Formiche.net Giovanni Pellegrino?
Assolutamente sì. Non riesco a spiegarmi perché si sia arrivati a tanto. Non vi è logica, se non quella di offrire una “rappresentazione”. La vicenda giudiziaria sulla presunta trattativa è una cosa che va in onda, che deve essere trasmessa, che i cittadini devono vedere affinché si faccia spettacolo. E l’esito inevitabile è il circo indecente cui una persona della levatura di Napolitano è stato sottoposto al Quirinale.