La sinistra italiana sembra attraversare una fase di contrapposizione interna tra le più drammatiche della sua storia. Nei momenti di scontro più duro ed esasperato che la memoria ci ripropone – riaffiora quello del taglio della scala mobile con il Decreto di San Valentino del febbraio 1984 che oppose il primo governo Craxi al Pci di Enrico Berlinguer e alla Cgil di Luciano Lama, con la generosa mediazione di Ezio Tarantelli, poi pagata a caro prezzo; e riaffiorano le polemiche che per mesi occuparono le prime pagine della cronaca politica agli inizi del secondo governo Berlusconi, quando, nel quadro della riforma che prese il nome di legge Biagi, si tentò di modificare l’art. 18 – la forza che costituiva il principale riferimento politico del movimento operaio restava generalmente coesa contro l’avversario esterno, che si chiamasse Craxi o Berlusconi.
Nello scontro delle scorse settimane si è avvertito invece un messaggio nuovo e originale, una sorta di strappo e discontinuità rispetto alla dialettica del passato. E’ come se il filo di una certa tradizione concertativa si sia venuto a trovare sul punto di spezzarsi inesorabilmente, nella ricerca di modelli nuovi e diversi di confronto, non ancora definiti. A mia memoria, nessun premier aveva usato in passato espressioni di sfida così disinvolte e indicative di una tendenza ad esorcizzare i consolidati schemi del ‘900. Lo stesso Berlusconi, con la sua offensiva neoliberista di fine millennio, benché culturalmente diffidente nei confronti delle radicate tradizioni sindacali nazionali, non si era mai espresso in una forma così provocatoria. Quando Renzi dice apertamente e pubblicamente che non concorda le riforme con i sindacati e paragona i difensori dell’art. 18 a coloro che intendano inserire il gettone nell’hiphone o la pellicola nelle macchinette fotografiche digitali, sembra gettare lo sguardo su un assetto sociale e un orizzonte culturale oltre la sua stessa generazione.
Al di là delle consuete precisazioni e rettifiche, le sortite del premier sembrano preannunciare una svolta epocale nella storia della sinistra. Non vuole accreditare l’aspettativa di uno sconfinamento a destra e neanche le accuse di “thatcherismo” (sono accuse, naturalmente, quando provengano da sinistra, come nel caso in specie), ma tiene a precisare, in modo forte e chiaro, che la sua sinistra e il suo Pd sono ormai qualcosa di profondamente diverso non soltanto dalle vecchie impostazioni social comuniste, ma anche dai democratici di sinistra da queste derivati dopo la caduta del Muro, proprio un quarto di secolo fa. Le simultanee manifestazioni della Leopolda e di Piazza San Giovanni evocavano il ricordo delle tante scissioni che hanno segnato la storia della sinistra italiana.
Proprio rivolgendo il pensiero alla prima di tali scissioni, quella del 1912, quando i riformisti furono espulsi dal Partito Socialista Italiano, nel cui congresso i rivoluzionari – guidati, ironia della sorte, da un certo… Mussolini! – avevano ottenuto la maggioranza e i fuoriusciti fondarono il Partito Socialista Riformista, riemerge l’attualità di quella che fu una suggestiva asserzione di uno dei protagonisti di quella stessa scissione, il giornalista e poeta Gino Piva, oggi forse un po’ dimenticato, che seguì Bissolati e Bonomi nel nuovo partito riformista. Nell’intento di superare la dicotomia sempre corrente nella storia della sinistra, Piva affermava che il “socialismo non è né rivoluzionario, né riformista, è quello che il suo tempo lo fa…”. Penso che questa antica massima possa adattarsi alla posizione ora espressa da Renzi e alla sua persistente volontà di restare nell’alveo della sinistra. Una sinistra indotta a interpretare un nuovo secolo, nell’era della competizione globale, della profonda trasformazione del tessuto produttivo, della dilatazione del precariato, della migrazione dei “cervelli”, dell’immigrazione di massa verso l’Europa dalle aree dei conflitti, delle persecuzioni e della povertà.
Delle partite Iva che in larga misura rischiano di diventare i nuovi poveri, in un sistema eccessivamente vincolistico, corporativo e fiscalmente oppressivo, diseguale nelle protezioni accordate. Ma una parte consistente del Pd appare irriducibile alla svolta e al nuovo stile impressi dal segretario-premier e, se le distanze fossero realmente così marcate come sono apparse nel corso delle due distinte manifestazioni e nelle giornate successive, una nuova scissione potrebbe investire la sinistra italiana. Una prospettiva che il senso di responsabilità di Bersani e D’Alema cercherà di allontanare, confidando in un riequilibrio tra le componenti del partito, attraverso la dialettica interna. Rompere proprio adesso, nel momento in cui il Pd è il maggiore partito italiano, al 40%, quasi il doppio del secondo partito – 5 Stelle – e con Forza Italia al suo minimo storico! Sembrerebbe veramente l’ultima e più clamorosa attuazione di quel “farsi del male” lamentato a suo tempo da Nanni Moretti. Sempre che ormai la distanza tra le due visioni possa essere ridotta e che l’unità rappresenti ancora un valore per le due parti.