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Che cosa (non) dice il rapporto Censis

Com’è fin troppo noto agli addetti ai lavori i dispacci di agenzia che vengono lanciati quando si presentano corposi studi sull’economia e la società italiana devono necessariamente riassumerne in poche battute il contenuto, a rischio poi di sottavalutarne la complessità e l’articolazione analitica. A sommesso avviso di chi scrive, questo sembra stia accadendo in queste ore all’ultimo Rapporto del Censis di cui le agenzie di stampa stanno sottolineando gli elementi di forte preoccupazione per la tenuta del Paese, a causa di una persistente recessione della sua economia che non sembra ancora trovare una via d’uscita, nonostante il fortissimo impegno manifestato dal governo Renzi per rilanciarla, pur all’interno dei vincoli fissati a livello comunitario.

Con questa rapida nota allora – non volendo in alcun modo far torto agli estensori di un Rapporto che sicuramente anche quest’anno avrà contenuti analitici di pregio diffusi nella corposa pubblicazione che pochi poi studiano per intero, dopo averne letta la sintesi giornalistica – voglio abbozzare una prima riflessione sul messaggio complessivo che trasmette questo studio del Censis, almeno per come sembra recepito da alcune testate giornalistiche.

Allora, d’accordo, si segnalino pure le gravi difficoltà occupazionali soprattutto dei giovani, molti dei quali laureati, e il grave rischio che si disperda tanto capitale umano pregiato che dovrebbe invece trovare impiego all’altezza della sua qualificazione. Inoltre, si evidenzi giustamente come l’aumento del risparmio del Paese – che sta crescendo, sia pure con tassi diseguali nelle varie circoscrizioni, come ci dicono le statistiche della Banca d’Italia – conservi un carattere solo “difensivo”, riferito cioè al timore diffuso nelle nostre famiglie per il futuro del Paese. Si pongano pure in evidenza le difficoltà che incontrano tante piccole e medie imprese nel loro posizionamento competitivo sui mercati interni e internazionali. Si segnalino senza indulgenza e con severità le connotazioni a volte drammatiche – come emerge anche dai fatti di Roma di questi ultimi giorni – che segnano la vita amministrativa di tante comunità locali.

Ma insieme a tutto questo perché non compiere anche uno sforzo ricognitivo aggiuntivo, capace di dare conto anche – con eguale ampiezza – di tutto quanto invece larghe parti del Paese mettono in campo ogni giorno per tenerlo a galla, per consentirgli di funzionare, per conservarne o migliorarne la competitività di sistema, nello scenario di una globalizzazione veramente worldwide a differenza del passato, che è del tutto inedita – perché non dirlo? –  per la storia dell’economia nazionale?

Facile ottimismo il nostro? Comprendo che ai lettori – o almeno a molti di loro – possa apparire tale, ma – diciamolo chiaramente – faremmo torto all’Italia che ogni giorno funziona, resiste, lotta, compete, innova, investe, assume, risparmia, assiste, insegna, ricerca, studia,  se quello sforzo analitico aggiuntivo per registrare tutto questo non lo compissimo. Del resto, non è stato lo stesso Censis che in suoi precedenti Rapporti, meritoriamente sotto il profilo scientifico, ci ha spiegato cosa sia il profondo, persistente e resistente vitalismo del nostro sistema socioeconomico? Non sono stati forse il prof. De Rita e il Direttore del Censis Giuseppe Roma – originario di Brindisi come ama ricordare spesso ai suoi concittadini  – a spiegarci quanta forza nascosta abbia l’Italia produttiva che, nonostante tutto – e a dispetto delle analisi approssimative di taluni dirigenti della Commissione Europea – conserva il quinto avanzo manifatturiero al mondo come ci ricorda il prof. Marco Fortis nelle sue pregevoli analisi sull’industria nazionale e sul suo export?

Allora mi chiedo e chiedo ai dirigenti del Censis: non dovremmo rimetterci tutti i discussione anche nei nostri approcci conoscitivi e soprattutto nelle rappresentazioni della realtà nazionale? Ogni anno bisogna inventarsi lo slogan ad effetto per descrivere la condizione del Paese? O non dovremmo invece, con grande umiltà, tutti insieme analizzare più a fondo il Paese – magari esplorandolo nelle sue singole regioni, piuttosto che descriverlo solo da Roma  – per comprendere meglio come stanno realmente le situazioni di cui parliamo? Non rischiamo così con certe analisi segnate solo dall’accanimento descrittivo delle criticità, di offuscare le tante positività che le bilanciano, ma anche di distruggere gli ultimi residui di speranza nei nostri giovani che tutti invece dovremmo alimentare?

Federico Pirro (Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia)


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