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Roma sa cosa succede davvero a Taranto per l’Ilva?

Mentre nelle aule parlamentari ci si conta e ci si scontra su Italicum e riforma delle Istituzioni, in alcune Commissioni (Industria e Ambiente) del Senato si sta affrontando la complessa conversione del decreto legge per Taranto con i suoi articoli sull’Ilva. Se ciò avviene in Commissione, nella città ionica invece in queste stesse ore gli operai (senza salario da mesi) delle aziende dell’indotto del Siderurgico – i cui titolari vantano crediti non pagati da mesi per 100 milioni che rischiano di essere congelati dall’Amministrazione straordinaria – stanno occupando la sala consiliare del Comune e il ponte girevole che divide la città vecchia dalla nuova. Sarebbe auspicabile allora che tutti coloro – o almeno molti di coloro – che duellano in aula e sui media su Italicum e futura Presidenza della Repubblica prestassero invece più attenzione a ciò che accade nelle piazze e sui luoghi di lavoro dove, come a Taranto, ci stiamo giocando pezzi strategici dell’apparato produttivo nazionale.

La difesa all’interno della procedura di amministrazione straordinaria delle aziende dell’indotto dell’Ilva non è solo necessaria per salvare le numerose piccole e medie imprese operanti nel suo ambito, i loro titolari e i circa 5.000 addetti che vi sono impiegati, ma anche per non depauperare il tessuto produttivo dell’area di Taranto e di province contermini.

Il cluster di aziende locali che lavorano da tanti anni quali subfornitrici del Siderurgico è molto articolato al suo interno, per tipologie di prodotti e servizi assicurati, per struttura patrimoniale e risultati di conto economico, per parco macchine e numero di occupati, per diversificazione dei propri clienti, per lo standing imprenditoriale dei titolari: ma il nocciolo duro delle imprese di questo microcosmo è composto da un gruppo di Pmi molto qualificate, con capacità realizzative elevate, con opifici dotati di macchinari avanzati e con un’apprezzabile propensione a sperimentare la diversificazione del proprio mercato, sia pure in un quadro di sostanziale dipendenza da un apparato manifatturiero come quello tarantino, costituito da grandi industrie di processo siderurgiche e petrolchimiche, cui si affiancano la Cementir e l’Arsenale.

Bisogna pertanto salvare e difendere in logiche di mercato quelli che possono considerarsi anch’essi a buona ragione ‘fornitori strategici’ dell’Ilva, anche se di piccole e medie dimensioni e non assimilabili certo ai grandi fornitori di minerale di ferro, di gas e di imponenti macchinari. Ma salvare queste Pmi locali significherebbe anche non penalizzare tutto il retrostante mondo di imprese che le supporta, come ad esempio quello bancario provinciale che subirebbe contraccolpi durissimi se, malauguratamente, l’indotto tarantino venisse falcidiato da una Amministrazione straordinaria disattenta alle sue necessità.

Fatta questa lunga premessa – cui devono seguire atti precisi e rassicuranti da parte degli organi preposti alla procedura – è necessario, a mio avviso, innestare sull’emergenza una riflessione più ampia sulle prospettive di medio-lungo termine di questo vasto comparto, o almeno di quel nocciolo duro di aziende richiamato in precedenza, perché è del tutto evidente che con la nuova complessa fase che si apre per lo stabilimento di Taranto, e per quelli che gli sono funzionalmente collegati, nulla in futuro potrà restare come prima. Gli imprenditori più qualificati, i loro dirigenti, i Sindacati e le associazioni di categoria, del resto, ne sono consapevoli già da tempo, se è vero che alcune aziende da tempo hanno avviato con successo l’acquisizione di commesse in Italia e all’estero, magari accettando margini di redditività più contenuta delle stesse, ma entrando comunque in nuovi mercati e dialogando con altri clienti.

Allora se la diversificazione è necessaria – il che non significa affatto, beninteso, rinunciare alle commesse dell’Ilva, dell’Eni e di altri grandi committenti presenti nel territorio presso i quali si sono acquisite (e si devono conservare) qualifiche e capacità esecutive non facilmente rimpiazzabili – è bene che questo percorso peraltro non facile di consolidamento e arricchimento di commesse e clienti sia in qualche modo governato ed anche pilotato da una ‘unità tecnica di missione’ che si potrebbe istituire presso il Ministero dello sviluppo economico – o anche nell’ambito del tavolo presso Palazzo Chigi per l’attuazione del Contratto istituzionale di sviluppo previsto dal decreto legge – cui partecipino Confindustria, Invitalia, Università e Politecnico, l’Abi, i Sindacati, Regione ed Enti locali: una pluralità di soggetti, insomma, ciascuno dei quali – nell’ambito delle proprie competenze e sensibilità – aiuti un processo che dovrà portare ad una riorganizzazione complessiva dell’intero settore con probabili fusioni societarie, nuove reti di imprese, consolidamenti patrimoniali, ricapitalizzazioni, innovazioni tecnologiche, rafforzamenti manageriali, diversificazioni di prodotti e riposizionamenti su nuovi mercati per difendere e promuovere in esclusive logiche di mercato un capitale di esperienze e di lavoro che appartiene all’intera comunità dell’industria italiana.

Nessuno coltivi l’illusione che si potrà ritornare al passato, o anche solo restare ancorati ad un presente che potrebbe comportare qualche scelta dolorosa. Ma questo che potremmo definire un vero ‘progetto per un indotto multisettoriale e tendenzialmente integrato’, non può essere affidato alla spontaneità di coloro che dovrebbero esserne direttamente interessati e coinvolti. Anche in questo caso Taranto, la sua provincia, la Puglia e la loro imprenditoria meccanica ed impiantistica non possono essere lasciate da sole ad affrontare una fase di transizione che potrebbe generare, se non governata saldamente, anche un devastante tsunami dalle dimensioni imprevedibili: devono prevalere invece, lucidità di analisi, rigore tecnico delle proposte, lungimiranza degli imprenditori, impegno delle Istituzioni e logica della concertazione. Anche in questo caso, in altri termini, non ci sono alternative al fare sistema.

Federico Pirro (Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia)


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