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Che cosa penso dell’idea di Poletti sul taglio delle vacanze scolastiche

Quando, durante la campagna elettorale del 2013, lavoravo, insieme a Pietro Ichino, al programma di Scelta civica ricordo che mi capitò tra le mani un elaborato di un altro gruppo di colleghi nel quale veniva proposto di ridurre ad un mese l’interruzione estiva del calendario scolastico (e di conseguenza le ferie degli insegnanti). L’idea mi parve di buon senso e non ebbi difficoltà a trasferirla nei testi, work in progress, che venivamo preparando. La cosa finì sulle agenzie, suscitò le proteste del Circo Barnum sindacale, tanto che il coordinatore della campagna elettorale (un carissimo amico di cui non rivelo il nome) non solo mi diede una classica lavata di testa (sostenendo che in tal modo il partito avrebbe perso chissà quanti voti di insegnanti), ma vergò persino qualche riga di smentita.

A me la vicenda non piacque. Pensai che si trattasse di un cedimento ad esigenze elettoralistiche di cui un movimento come quello fondato da Mario Monti non avrebbe dovuto soffrire. Purtroppo, quello non fu il solo segnale di una campagna elettorale velleitariamente ‘’piaciona’’ che contribuì, a mio parere, a fare perdere consensi alle liste. Scelta civica sarebbe stata votata da chi aveva condiviso la politica di grande rigore portata avanti dal Governo dei ‘’tecnici’’.

A me sembrava, allora, inutile e controproducente indossare il mantello dell’agnello sulla pelle del lupo. Ma fermiamoci qui con gli esercizi di memoria e lasciamo che i morti seppelliscano i morti.  Ammetto però che mi ha fatto piacere leggere quanto ha affermato in proposito – con il suo aplomb di romagnolo verace –  il Ministro Giuliano Poletti, parlando a nuora (agli studenti) perché suocera (i docenti) intenda. Per Poletti, una parte del tempo, oggi sprecato nei mesi delle vacanze estive, andrebbe meglio impiegato nell’organizzare occasioni di interscambio tra scuola e lavoro. Da noi, è praticamente sconosciuta ogni forma di alternanza tra scuola e lavoro, nel senso che – a fronte di una media europea del 25%  e del 30% nell’Ocse – risulta che meno del 5% dei nostri giovani ha compiuto un’esperienza lavorativa, anche breve, durante gli studi (che terminano ad un’età più elevata di quella dei giovani europei). Peraltro, quanto più i giovani invecchiano, maggiore diventa il tempo in cui rimangono privi di occupazione. A 20 anni è circa di un anno, a trent’anni di oltre un triennio.

E’ evidente che la lunghezza del ciclo formativo e i suoi canali di comunicazione con il mercato del lavoro incidono sull’occupabilità dei giovani.  Il problema, dunque, non è quello di studiare di più (anche se programmi di questo tipo, predisposti durante l’estate, consentirebbero di contrastare, con maggiori risultati, la dispersione scolastica, che è una grave anomalia del nostro sistema di istruzione). Gli studenti italiani passano a scuola un numero maggiore di ore rispetto a quello medio dei Paesi Ocse. L’emergenza da affrontare è un’altra: assicurare ai giovani una ‘’confidenza’’ con il lavoro già durante il ciclo formativo.

Qualcuno ha voluto replicare al ministro che sono tanti gli studenti  – soprattutto universitari – che d’estate si arrangiano e si dedicano a qualche lavoretto. Ma perché sono obbligati a farlo in solitudine? Perché, fin dai primi approcci con il mercato del lavoro, devono ‘’farsi l’idea’’ che la ricerca di un posto è un percorso individuale da compiere con l’aiuto della propria famiglia e nell’ambito delle proprie conoscenze, senza che nessun altro ti aiuti anche soltanto fornendoti un orientamento?

Qui, però, viene il momento della verità. Riduciamo pure le ferie degli insegnanti (che durano tre mesi soltanto sulla carta se consideriamo la partecipazione alle commissioni d’esame e quant’altro viene predisposto nei plessi scolastici) e le vacanze degli studenti: ma per fare che? La scuola pubblica è in grado di predisporre programmi adeguati ad andare ‘’alla ricerca del tempo perduto’’?

Certo, ci sono delle ‘’buone pratiche’’, ma non sono in grado di assurgere a sistema. Persino l’apprendistato – il contratto a forma mista per eccellenza – che, dalla legge Biagi in poi, tenta di procedere in parallelo con i cicli scolastici stenta a crescere e a consolidarsi proprio nei punti in cui si interseca (si pensi all’apprendistato di primo livello che è in piena sinergia con l’adempimento e il completamento del ciclo dell’obbligo, mentre quello di alta formazione si spinge fino ad accompagnare il dottorato di ricerca) con il sistema d’istruzione.

Il Governo ha varato il piano della c.d. buona scuola, dove sono previsti poteri di autonomia, a livello dei plessi scolastici, a lungo contrastati dalle componenti interne sostanzialmente autoreferenti ed ideologizzate. Vi sono, tuttavia, forti limiti evidenti: in primo luogo, l’autogoverno della scuola dovrebbe aprirsi di più alla società e alle forze dell’economia e del lavoro; occorrerebbe, poi, una forte rivisitazione della titolarità delle politiche attive oggi in capo alle Regioni, che hanno sempre avuto la pretesa di rivendicare anche quei poteri che non sono in grado di gestire. Se non si rivedono gli assetti e le competenze istituzionali, anche l’Agenzia nazionale per l’occupazione diventerà una sovrastruttura burocratica ed impotente.

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