Questo mese ricorrono due “compleanni” importanti. Oggi compie 45 anni lo Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300), ieri ne ha compiuti 40 la legge sul diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975, n. 151). Ed entro l’anno, a dicembre ne compirà 45 la legge sul divorzio (l. 1° dicembre 1970, n. 898).
Si tratta di riforme che hanno segnato una svolta epocale, non solo dal punto di vista normativo, ma anche culturale e di pensiero, che però nascono e affondano le loro radici in una società e in un mondo totalmente diversi da quelli attuali.
E mentre per una di esse, lo Statuto dei lavoratori, dopo anni di dibatti e due omicidi (D’Antona e Biagi) ci si è finalmente convinti che un aggiornamento e un aggiustamento delle distorsioni e degli anacronismi più vistosi erano necessari, per le altre due i progressi sono stati molto lenti, almeno nella sostanza, e le maggiori novità hanno riguardato il tema affidamenti e il cosiddetto “divorzio breve”.
Nonostante tante voci famose ed autorevoli (si veda il recente articolo su Panorama dell’avv. Bernardini De Pace) continuino a lanciare appelli perché venga avviato un dibattito, l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un tabù (o ad un totem).
Eppure basterebbe leggere le decine di articoli sul disastroso fenomeno sociale dei tanti padri “schiacciati”, rovinati dalla cattiva applicazione di regole obsolete, per rendersi conto che qualcosa in sede applicativa non funziona.
Non volendo entrare nel merito di un dibattito complesso, che presenta una miriade di sfaccettature e sul quale ho una competenza piuttosto elementare, mi limito a tre osservazioni (ovviamente opinabili) dall’angolo visuale del “giuslavorista”, azzardando un parallelismo probabilmente ardito.
La prima. Nel diritto del lavoro si persegue, giustamente e con vigore, la strada per l’affermazione di una parità di opportunità fra donne e uomini effettiva e non solo teorica o sulla carta. L’assunto di partenza, indiscutibile, è che non esistono in natura compiti, funzioni o ruoli esclusivi o per i quali gli appartenenti ad un sesso sono “geneticamente” più predisposti. Ma, se così è, così deve essere in ogni ambito. I principi di parità, di pari dignità e di non discriminazione non ammettono “comparti stagni”, rappresentano un faro da seguire e un valore da affermare e realizzare in concreto, nelle aule dei tribunali, in ogni settore del diritto, anche quello di famiglia.
La seconda. Nel diritto del lavoro, quando si riscontrano “elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico” (ad esempio, se su 100 lavoratori di cui metà uomini e metà donne vengono promossi nove uomini e una sola donna) si ha una presunzione di discriminazione. Lo dice al Codice delle pari opportunità. Pensando a quanto avviene nel diritto di famiglia, mi viene da dire che i dati sugli assegni di mantenimento qualche interrogativo dovrebbero sollevarlo
La terza. Nel diritto del lavoro in caso di licenziamento illegittimo, comportante la reintegrazione, il lavoratore non può starsene con le mani in mano ma deve fare il possibile per cercarsi un altro posto. Lo impongono basilari regole di correttezza e di civiltà giuridica.
Tradotto: un lavoratore anche se illegittimamente licenziato, dopo una vita di lavoro, non può comunque pretendere di vivere di rendita sulle spalle di un altro in eterno. E un ex coniuge, casomai dopo appena qualche anno di matrimonio, sì?