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Vogliamo davvero rottamare l’Ilva?

La sentenza di rinvio a giudizio di 46 imputati e di 3 società per i presunti reati ambientali connessi all’esercizio dello stabilimento dell’Ilva di Taranto, se da un lato rimanda ai dibattimenti nei vari gradi di giudizio l’accertamento delle effettive responsabilità delle singole persone, dall’altro non deve distogliere per un solo istante l’attenzione della grande opinione pubblica italiana dal massiccio impegno profuso dall’Amministrazione straordinaria della società per bonificare il sito del capoluogo ionico, secondo le prescrizioni dell’Aia, rilanciandolo sul mercato, insieme agli stabilimenti collegati di Genova e Novi Ligure e assicurare così al Paese la persistenza di un asset strategico, senza il quale l’Italia perderebbe il ruolo di grande potenza industriale di rango mondiale, oggi al secondo posto in Europa dopo la Germania per il valore della sua produzione manifatturiera.

In riva allo Ionio a partire dal 1960 – con l’insediamento del IV Centro Siderurgico dell’Italsider – si potenziò un comparto come quello della produzione di acciaio che con i siti già esistenti di Genova, Piombino e Bagnoli contribuiva ad alimentare il miracolo economico italiano. E poi, con l’ampliamento del ’68-’70 e successivamente con il ‘raddoppio’ avvenuto fra il ’70 e il ’75 della sua capacità, portata a 11,5 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, la fabbrica di Taranto si è confermata nei decenni successivi, e sino ai giorni nostri, non solo uno dei pilastri portanti dell’industria nazionale, ma anche uno dei cardini di quella localizzata nel Mezzogiorno, la cui persistente consistenza – documentata da studi di prestigiosi centri di ricerca nazionali e da autorevoli studiosi meridionali – smentisce ogni affermazione circa un incombente processo di desertificazione industriale del Sud.

Da anni contro lo stabilimento tarantino settori estremistici dell’ambientalismo locale portano innanzi una sistematica, irriducibile battaglia finalizzata alla sua dismissione, anche coatta, o almeno a quella della sua area a caldo, considerata altamente inquinante. Ma la fabbrica è una struttura a ciclo integrale con quattro altiforni, a valle dei quali operano acciaierie, treni nastri, treno lamiere e due tubifici, con una centrale elettrica che genera energia, alimentando il grande stabilimento e utilizzando i gas di scarico delle lavorazioni siderurgiche; pertanto, sarebbe antieconomico chiudere l’area a caldo, lavorando soltanto bramme provenienti da altri siti.

Le questioni complesse legate al risanamento ambientale della fabbrica e al drastico abbattimento del suo tasso di inquinamento – su cui era già intervenuto il gruppo Riva dopo la privatizzazione del 1995, in misura peraltro non ritenuta affatto adeguata dalla Magistratura – sono state oggetto negli ultimi anni di vari interventi dei Governi Monti, Letta e Renzi.

Quest’ultimo in particolare ha lavorato con determinazione per recuperare e stabilizzare una accettabile situazione di governance anche finanziaria della società, nella piena consapevolezza del ruolo strategico che essa riveste anche nello scacchiere occupazionale italiano. Lo stabilimento di Taranto infatti con i suoi 11.331 addetti diretti è la più grande concentrazione di classe operaia nazionale: pertanto, Governo, Istituzioni locali, Sindacati, Confindustria, banche e mondo della ricerca, operando di concerto ognuno secondo le proprie competenze, lavorano per sbarrare la strada ad ogni tentativo – salutato peraltro con favore dai competitor siderurgici esteri – di spezzare la spina dorsale dell’industria nazionale e meridionale. E’ bene che ne siano tutti consapevoli.

Federico Pirro (Università di Bari – Centro Studi Confindustria Puglia)


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