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Ecco come liberali e liberisti si accapigliano sulla Digital Tax di Renzi

La commissione Finanze della Camera ha fissato per la metà del mese prossimo un ciclo di audizioni sulla digital tax. Nel frattempo, fuori dal Parlamento, esperti, tecnici e intellettuali di stampo liberale e liberista si accapigliano sulla proposta anti-elusione firmata dai deputati di Scelta Civica, Stefano Quintarelli e Giulio Sottanelli, alla quale si ispira il premier Matteo Renzi. E i toni non sono clementi. Come succede sovente ai liberali.

Ma per il sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, non c’è nulla da temere: “La nostra soluzione è simile a quella recentemente adottata dalla liberale Inghilterra. Ed è proprio perché strutturata come norma antiabuso che non presenta alcun profilo di contrasto con previsioni Ocse e trattati”, ha puntualizzato il sottosegretario all’Economia intervistato dal Sole 24 Ore.

LA PROPOSTA

La proposta annunciata dal premier Renzi in una puntata Otto e Mezzo su La7, prevede entro il 2017 l’applicazione di una ritenuta del 25% operata da banche e intermediari, sui pagamenti a favore delle multinazionali con sede all’estero. Per evitare l’imposizione anche nel paese di residenza, a queste società verrebbe riconosciuto un credito di imposta pari all’importo delle tasse versate in Italia. A meno che queste società non decidano di dichiarare una stabile organizzazione in Italia, pagando le imposte nel nostro Paese.
La ritenuta alla fonte scatterebbe sul presupposto dell’esistenza di una “stabile organizzazione virtuale” al superamento di determinate soglie di fatturato monitorate dal circuito dei pagamenti.

COSA DICONO I PROMOTORI

A difendere la proposta c’è in prima linea Quintarelli, esponente della prima ora del movimento montiano e liberale Scelta Civica: “Nessuno è perfetto e tutti sbagliamo; mi sarebbe più utile se commenti di professionisti stimati entrassero nel merito e nel dettaglio, non si limitassero ad affermazioni generiche ideologiche o di principio”, ha scritto Quintarelli sul suo blog, rispondendo punto per punto alle principali critiche sopraggiunte in questi giorni.

Secondo i promotori, la misura concorre a rendere possibile un piano di riduzione delle tasse per tutte le imprese che operano in Italia: “Google, Apple, Facebook, eBay e Amazon hanno realizzato nel nostro paese nel 2013 circa 4 miliardi di fatturato. Nelle casse dell’Erario però hanno versato solo 11,4 milioni di tasse”, ha commentato il segretario di Scelta Civica nell’intervista al Sole 24 ore.

Zanetti, noto tributarista di ispirazione liberale, che qualche giorno fa ha ipotizzato di anticipare il varo della norma: “Non escludo che si possa ragionare anche in ottica 2016, considerato che può dare un contributo davvero importante in termini di gettito e, quindi, di finanziamento delle importanti misure di riduzione del prelievo fiscale su lavoratori, imprese e famiglie italiane”, ha fatto adesso un passo indietro:  “Riteniamo corretto l’orizzonte temporale del 2017 perché per noi è una misura da leggere in stretta correlazione con i 15 miliardi di minore Ires e Irap che il governo si è impegnato a garantire a tutte le imprese, ivi comprese quelle del Web”, ha detto Zanetti.

IL RIMBROTTO DI CARNEVALE MAFFE’

Se i promotori della proposta ci tengono a sottolineare che non si tratta di una tassa ma di un meccanismo anti-elusivo, altri liberali dissentono: “Quella di Stefano Quintarelli non è né digital né tax. E’ una pistola puntata sull’azienda: o fai la sede in Italia o io ti tasso, forza ad aprire una stabile organizzazione, è un prelievo forzoso, e un ostacolo alla libera scelta di stabilimento, che è un pilastro della Unione europea. E’ comprensibile e razionale, ma io dissento, va contro lo stile europeo”, ha detto Carlo Alberto Carnevale Maffé, economista dell’Università Bocconi, intervistato da La Stampa.

LE CRITICHE DELL’ISTITUTO BRUNO LEONI

Della stessa idea è Massimiliano Trovato, fellow del centro studi liberale e liberista Istituto Bruno Leoni: “È molto più simile a un ricatto, e penso sia parola appropriata, perché equivale a dire a queste imprese o fate la “stabile organizzazione” in Italia, che adesso non avete, oppure noi i soldi li prendiamo comunque e in ogni caso”, ha detto al Foglio aggiungendo che la proposta “ha dei punti di contatto con la misura che ha preso George Osborne in Gran Bretagna ma è diversa”. Ecco in cosa: “La proposta Zanetti prende di mira i ricavi mentre Londra tassa i profitti. Un’imposizione sui ricavi non si è mai sentita in nessun paese, vuol dire che tutte le spese di produzione di quel reddito non possono essere dedotte”, ha spiegato Trovato.

Ma non è tutto: “Mentre il governo inglese non fa mistero di aver introdotto una nuova imposta, i proponenti della digital tax nostrana si affannano a precisare che non si tratterebbe di una tassa, bensì di uno “strumento antielusivo”. Affermazione bizzarra, perché l’aggettivo illustra lo scopo perseguito, ma tace sulla natura del mezzo prescelto. La digital tax ha aliquota, base imponibile, presupposti propri; e interverrebbe proprio per l’impossibilità (o la difficoltà) di applicare le normali imposte sul reddito d’impresa. In un certo senso, rincuora che, nel paese delle tasse “bellissime”, l’introduzione di nuovi tributi sia (nuovamente?) considerata un motivo d’imbarazzo”, si legge sul sito dell’Istituto Bruno Leoni diretto da Alberto Mingardi e in cui ha un ruolo di primo piano anche Carlo Stagnaro, ora consigliere del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi.

LA REPRIMENDA DEL PASSEROTTO PUGLISI

Per Riccardo Puglisi, docente di economia all’Università di Pavia e redattore del sito economico La Voce.info, la nuova proposta di Web tax “evita di incappare” negli stessi errori di quella di Boccia, “recepisce i suggerimenti dell’OCSE sulla necessità di evitare una doppia tassazione in Italia e nel paese di residenza (tramite un credito di imposta) e lascia alle imprese la possibilità di dichiarare una stabile organizzazione in Italia”, ha detto l’economista liberale ed esponete di punta del partito Italia Unica fondato e presieduto da Corrado Passera.
Ma per Puglisi qualcosa non torna: “Ad oggi, non mi è però del tutto chiaro quale tipo di “carota” fiscale venga utilizzata per indurle a fare ciò, soprattutto se l’imposizione fiscale sulle imprese italiane resta così elevata”, ha detto intervistato da Fabio Chiusi su Wired.
Visto poi che – ha aggiunto Puglisi accodandosi a quanto sostenuto anche dal deputato di Forza Italia, Antonio Palmieri, in un’intervista con Formiche.net “nel G20 di ottobre il tema verrà affrontato in maniera coordinata: non sarebbe opportuno che l’Italia lavori attraverso i suoi “sherpa” per arrivare a una definizione comune migliore, invece che inventarsi il proprio concetto di “stabile organizzazione virtuale” in maniera sconnessa rispetto agli altri paesi sviluppati?”.

LE TESI DELL’AVVOCATO STEVANATO ELOGIATO DA GIANNINO

Cosa ne pensano gli avvocati? Tale ipotesi sarà percorribile dal punto di vista giuridico? “La risposta temo sia negativa su tutta la linea”, ha scritto Dario Stevanato, avvocato tributarista, su www.giustiziafiscale.it. Ecco il giudizio di Stevanato: “Il concetto di “stabile organizzazione” non può essere manipolato unilateralmente, in presenza di un trattato contro le doppie imposizioni. Dunque, giacché l’Italia ha stipulato un trattato con la maggior parte degli altri Paesi, non capisco come possa oggi “inventarsi” una nozione di stabile organizzazione (“virtuale”) diversa da quella desumibile dai trattati e dall’interpretazione accolta in sede Ocse”, ha spiegato Stevanato.

“L’idea poi di collegare la nascita di una “stabile” virtuale al superamento di un certo volume di transazioni mi sembra ancor meno gestibile. Come pure incomprensibile è la proposta di riconoscere un credito di imposta al fine di evitare doppie imposizioni: il credito di imposta è infatti riconosciuto dallo Stato della residenza, e non certo da quello della fonte”, ha osservato Stevanato fin dalla presentazione della proposta ad aprile scorso.

Tornando recentemente sul tema Stevanato ha tratto le sue conclusioni: “L’impressione, in definitiva, è che sia una proposta estemporanea, probabilmente dettata da ragioni di comunicazione politico-mediatica e confezionata senza una sufficiente dimestichezza con i meccanismi della fiscalità internazionale (e della fiscalità in genere)”.

“La pretesa nazional-unilaterale di identificare “stabile organizzazione” lede Trattati e accordi Ocse”, ha twittato Oscar Giannino – intellettuale liberista noto estimatore sia di Zanetti che di Quintarelli ma non su questo tema – sposando e rilanciando sul social network l’analisi di Stevanato, scettico, tra l’altro, sull’attendibilità delle parole del premier: “Renzi era contro, ora è pro: fino a 2017 ricambierà idea”, ha scritto su Twitter.

L’INTERROGATIVO DI KRUGER

Una domandina a Quintarelli arriva anche Peter W. Kruger, amministratore delegato di eZecute, via Facebook: “Avete fatto una stima dell’impatto che la web tax, pardon digital tax, avrà sui costi di promozione per i produttori e fornitori di servizi italiani? Dal momento che la ripresa italiana è quasi totalmente determinata dalla crescita del Made in Italy, che notoriamente è fortemente frammentato (e quindi riesce a ben valorizzarsi proprio con le piattaforma di promozione e vendita digitale), quale sarà l’impatto in termini di riduzione di redditività per il Made in Italy (e la conseguente riduzione delle entrate fiscali)? Che per caso ci stiamo dando una bella zappata sui piedi della ripresa già stitica che ci ritroviamo?”.

Leggi tutti gli approfondimenti di Formiche.net sulla Digital Tax:

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