Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.
La rivoluzione informatica, dalla radio e dalla Tv (mezzi di comunicazione del Novecento) ai social media (del Duemila), ha cambiato radicalmente il modo di fare politica. E non pochi scienziati sociali cercano di capire come e perché; e che cosa è diventato il partito politico, o meglio ciò che è rimasto dopo la sua fine.
Paolo Mancini (Università, Perugia) ce lo dice in un suo saggio apprezzabile quanto lucido, leggibile quanto semplice, gradevole quanto breve: Il post-partito. La fine delle grandi narrazioni (pp. 152, euro 13). Viviamo nell’era dei «post»: postmoderno, postindustriale, postcristiano, postmaterialista, etc. Aggettivi che indicano ciò che è morto, senza potervi aggiungere alcuna partecipazione di nascita. La storia è un cimitero di partiti, oggi viviamo nell’epoca del postpartito. Nati come club di notabili all’epoca del giornale, sono poi divenuti con la radio partiti di massa, rigidamente organizzati e burocratizzati, di cui Dc e Pci furono gli esempi massimi. Poi la caduta del comunismo e i processi di Mani Pulite li hanno spazzati via, ad eccezione del Pci, che si modificò nel nome (Pds, Ds, Pd) pur mantenendo la struttura centralizzata.
Il nuovo secolo ha visto la fine dei partiti rigidi e l’avvento di nuove formazioni leggere, che rifiutano lo stesso nome partito. Per molte ragioni (secolarizzazione, globalizzazione, consumismo, individualismo) la politica si è fatta liquida. Mancini, che è sociologo delle comunicazioni, esamina l’influenza dei nuovi media (telefonini, Facebook, Twitter) nella nascita dei post-partiti. Già uomini come Pertini, Cossiga e Craxi avevano intuito quei mutamenti che verranno assunti da tre leader notevolmente diversi. Primo fu Berlusconi, che dominò il ventennio della Seconda Repubblica facendo leva sulla televisione ed accentuando valori consoni ai mutamenti antropologici, alcuni da lui stesso incarnati: successo economico, consumo, calcio, sesso. Il partito ha perso gran parte delle sue funzioni espressive e organizzative, c’è meno il Capo del partito che il partito del Capo. Tanto è vero che Forza Italia è entrata in crisi col declino del Patron. E il nome del leader ha, di fatto, sostituito nelle schede quello del partito.
Secondo è stato Grillo, per mezzo dei social media: non più un partito, ma un movimento privo di strutture, tutto basato sul contrasto tra le élites corrotte e il popolo buono, in una forma di democrazia basata sul web (diretta perché comunicata in diretta). Perché «i partiti sono morti». Il burocrate del partito deve farsi show-man e potrà vincere (come Silvio e Beppe) anche con una formazione allestita in pochi mesi. Infine Renzi, leader postideologico che ha superato l’antitesi sinistra-destra. Egli si serve insieme della Tv e del web, non rifiuta il partito, ma vuole spogliarlo di ogni burocrazia. Decisionista e pragmatico, tenta di liberare il Pd dai vecchi residui, quella burocrazia che lo aveva condotto, come peraltro i sindacati, a perdere iscritti, voti e consensi («l’Unità» nel 1976 vendeva giornalmente circa 400 mila copie, 27mila nel 2013, onde la chiusura).
La ditta (Bersani) deve divenire un pluralistico supermercato. Renzi, ma già Prodi prima di lui, non hanno ha vinto le primarie col voto degli iscritti, ma convincendo coi media i cittadini.
Leader uniti da tre populismi, manageriale, spettacolare e decisionista. Mancini giustamente libera questo termine da ogni scomunica e lo considera come una inevitabile caratteristica della democrazia volatile del web. Populismo significa antipolitica, ma anche politica diversa. Entro dosi ragionevoli è un elemento necessario alla democrazia. Assunto nel web da tutti i leader: il serioso e baffuto D’Alema a Porta a Porta insegnò a fare il risotto; il dotto e accademico Monti uscì dalle Invasioni barbariche con in braccio un cucciolo maltesino, poi immortalato anche in tweet: «Vi presento Empatia, per gli amici Empty».
Ogni fenomeno storico mescola pregi e difetti. Tanti ne aveva il partito monolitico e altri ne ha il post-partito. L’analisi, rigorosamente scientifica di Mancini, è anche moderata. Non v’è dubbio che le comunicazioni elettriche hanno prodotto effetti positivi: siamo passati dalla democrazia dei militanti a quella del pubblico, tra politici e cittadini oggi ci possono essere rapporti diretti e interattivi, è stata favorita la personalizzazione nel leader e del votante. Il militante è divenuto un internauta e la comunicazione politica ha sostituito alla sezione il divano.
I rischi tuttavia non sono pochi: sovrabbondanza di informazione, ma anche incertezza e sfiducia, molto più individualismo che solidarietà, il pericolo di una comunicazione centralista e anche falsificata, la riduzione della razionalità e della discussione, la crescita della superficialità e del pressapochismo, la prevalenza dell’emotivo e del banale, l’instabilità e la nascita continua di nuove formazioni politiche che si sfasciano in pochi mesi.
Abbiamo, dunque, una democrazia debole e fragile? Forse, ma di certo appare impossibile ritornare al vecchio schema del partito rigido e burocratico. Il partito rimane un importante strumento di organizzazione e di aggregazione, ma potrà farlo solo con una struttura leggera e flessibile, che naviga a vista e fa programmi alla giornata. E anche se le grandi narrazioni, filosofiche e scientifiche, sono finite, non potrà mancare del tutto di idee e di ideologie. Se vogliamo evitare che la crisi del partito apra la strada a regimi autoritari o all’anarchia politica, non è di antipartiti che abbiamo bisogno, ma di nuovi partiti. Adeguati alla nostra epoca di democrazia mediatica.