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No Triv, la demagogia al potere (nelle Regioni)

Dopo i comuni denuclearizzati, superbo esempio di politica decerebrata, ora ci sono le regioni detrivellizzate. L’articolo 75 della Costituzione stabilisce che un referendum abrogativo è convocato quando ne fanno richiesta almeno cinque Consigli regionali, ma contro le trivelle che cercano petrolio e gas ce n’è il doppio: dieci. Di cui otto in mano alla stessa sinistra che approvò o propose le eleggi che ora si vogliono cancellare (il decreto “sviluppo”, del governo Monti, e quello “sblocca Italia”, del governo Renzi, che è anche il segretario del partito che raccoglie nel suo seno sia i votanti a favore che i richiedenti la cancellazione). Tre questioni si sommano, restituendoci il totale dello scombinarsi nazionale.

La prima è la più rilevante, quella energetica. Per la produzione di elettricità l’Italia dipende largamente dall’estero: 77%, contro la media europea del 53. Le fonti rinnovabili creano più chiacchiere che energia, considerato che arrivano al 20% del fabbisogno e in quella quota la parte più rilevante è dovuta all’idroelettrico, ovvero a una fonte tradizionale. Se avessimo più petrolio e più gas nostrani, insomma, ne trarrebbero grande vantaggio l’economia e la bilancia commerciale. Nel buon senso popolare “trovare il petrolio” è sinonimo di avere e fare fortuna, ma nel linguaggio politico sembra essere una disgrazia. Sono tutti pronti a correre appresso al falso ecologismo, secondo cui l’energia si consuma a volontà ma non la si produce. Sporca. Il giorno in cui si muoveranno a pedali e manderanno messaggi usando i piccioni, anziché gli smart phone, o parteciperanno a dibattiti in osteria, anziché nei salotti televisivi (che vanno a energia elettrica e radiofrequenze sparate nell’etere) saranno più coerenti.

La seconda questione è di tipo istituzionale: la tutela dell’ambiente e, in questo caso, del mare, è questione nazionale, non regionale. L’idea stessa del mare regionale è ridicola da morire. Questo non significa che gli enti locali non debbano avere un ruolo, ma dovrebbe concentrarsi nel controllo che le tecnologie di ricerca ed estrattive siano le migliori, quindi le più sicure, e nel chiedere che i proventi di quei giacimenti siano reinvestiti anche per remunerare il maggiore fastidio arrecato alle popolazioni vicine. Ma che tutto questo debba essere statale e centralizzato appare evidente a chiunque non sia provinciale e rintronato.

Politica è la terza questione: va bene che nel passato ci fu chi voleva essere “di lotta e di governo”, ma essere approvanti e abrogazionisti è insensato. Lo stesso partito non può cavalcare i due cavalli, se non mettendo una testa da asino. Il che vale per tutti, destra e sinistra, ma, come detto all’inizio, oggi il dramma bicefalo, o, se preferite, acefalo, colpisce il Partito democratico.

Abbiamo già fatto un referendum ai limiti del raggiro, sostenendo che l’acqua non dovesse essere amministrata da privati, con il risultato che è nelle mani di società quotate in Borsa (e se non sono private quelle, il cielo indichi quali), ma i cui vertici sono nominati dalla politica municipale. Si preferì la lottizzazione alla trasparenza. La spartizione all’investimento. Si straparlò di “bene comune”, ma inteso come sindaco e assessori. Ora calchiamo il palcoscenico nel teatro dell’assurdo, informando che da ottobre aumenterà il carico fiscale (creando inflazione erariale, prodotto del socialismo asociale) di luce e gas, ma che nel 2015 le famiglie hanno mediamente risparmiato 60 euro: grazie, perché prima di oggi giovava il calo del petrolio, mentre da oggi se lo ciuccia via il fisco, e siccome ci arriviamo il decimo mese dell’anno, i primi nove contabilizzano il risparmio. Davvero di che esserne orgogliosi. Siamo allenati, quindi, alle cose fantasiose. Ma mentre sarebbe saggio e sano un aperto dibattito su come e dove destinare la ricchezza generata dall’estrazione di petrolio e gas, non lo è minimamente metterne in dubbio lo sfruttamento.

(Articolo tratto dal profilo Facebook di Davide Giacalone)


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