Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Perché, malgrado la sempre più diffusa presenza militare russa in Siria e le attività della coalizione occidentale del 3 Dicembre 2014, l’Isis (o Daesh) si mostra così resiliente e spesso capace di ricostruire le proprie reti?
Il sedicente Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi ha tre elementi che favoriscono la sua stabilità: è diffuso in un’area strategica vasta, in cui le aree contese e intermedie coprono le attività dell’Isis; è socialmente stabile al proprio interno; è abbastanza grande per non cedere in uno scontro con un’alleanza militare di potenze estranee al quadrante mediorientale.
Troppo grande per essere totalmente sconfitto ed eradicato, troppo regionale per innescare l’escalation strategica di Russia, Usa ed Europa.
Con la Cina che, come spesso ripetono alcune fonti russe, potrebbe entrare nel conflitto o, più probabilmente, finanziare le forze russe, iraniane e siriane che combattono il Califfato.
Non bisogna poi dimenticare che la logica strategica del sistema califfale sirio-iracheno è ormai questa: tenere molte forze occupate nell’attrito militare sul terreno, ai bordi dell’area già occupata dall’Isis, e intanto esportare la “rivoluzione” jihadista prima nelle aree vicine, poi nei quadranti geopolitici più lontani dalla Mesopotamia.
Basta che esista, a questo punto, una comunità islamica abbastanza forte e radicalizzabile in loco.
Se Al Qaeda mirava alla consunzione dell’Occidente “ebreo e crociato” tramite una sequenza di attentati e la destabilizzazione dei Paesi islamici filoccidentali, l’Isis ha creato un territorio dal quale far partire sia attentati, come quello a Parigi, sia azioni militari di lunga durata.
Si pensi, in questo caso, al fatto che, il 21 giugno scorso, quattro regioni del Nord del Caucaso hanno giurato fedeltà ad Al Baghdadi, con la creazione di alcuni “uffici” dell’Isis nella regione, mentre anche altre aree caucasiche, il Daghestan, la Cecenia, la KBK (Kabardia, Balkaria e Kalakay) sono diventate parti dello “stato” islamico sirio-iracheno.
La presenza dei russi in Siria, quindi, ha molto a che fare con l’interesse nazionale di Mosca.
E come non notare la presenza, da tempo, di elementi califfali in Sinai, con il Wilayat Sinai, sedicente ma probabile autore dell’abbattimento del volo russo Metrojet 9268, che peraltro dichiara di aver iniziato la jihad, concordemente con Al Baghdadi, anche in Sudan?
È quindi probabilmente in atto una sorta di riunificazione tra il vecchio mondo qaedista e il nuovo califfato dell’Isis.
Non molti giorni fa, Ayman Al Zawahiri, che aveva sempre duramente polemizzato con Al Baghdadi, ha rilasciato online una dichiarazione nella quale incita i musulmani a unificare il fronte della lotta jihadista dalla Turchia all’Africa subsahariana, al fine di di distribuire e diluire le forze, peraltro poche e disorganizzate, dell’Occidente e della Russia.
Così si stabilizza la pressione in Mesopotamia contro lo “stato” di Al Baghdadi e si riutilizza la logica qaedista dell’attentato imprevisto e sequenziale contro “ebrei e crociati”.
Per dirla con la logica della Terza Internazionale, Al Baghdadi sta riunendo nel suo califfato una linea di operazioni “staliniane” (la jihad in un Paese solo) e di tipo “trotzkysta” (esportazione della jihad nei punti deboli del nemico “ebreo e crociato”).
È ancora facile prevedere che questa composizione dei potenziali strategici favorirà l’Isis, che avrà tutto l’interesse a riunire gli undici primari gruppi della jihad globale (quattro dei quali hanno già giurato fedeltà all’Isis) egemonizzandoli e unendosi alla vecchia, ma ancora non irrilevante, Al Qaeda.
Ma cosa è davvero l’Isis, e perché è così stabile al proprio interno e capace di sfidare russi e coalizione all’esterno?
La risposta sta, probabilmente, nella sua teologia politica e quindi nella sua finalità strategica.
L’Isis viene formato nel 2006 dalla fusione di ben undici fazioni della Al Qaeda in Iraq, che accolgono, tra le loro poche migliaia di militanti, anche molti ufficiali delle forze armate di Saddam Hussein e dei suoi Servizi.
Ricordo che, pur nella disorganizzazione delle forze del Baath di Baghdad, ci furono operazioni dell’esercito iracheno che fecero pensare, ad alcuni analisti occidentali, che fosse attiva una sorta di “Gladio” saddamita, che peraltro era stata predisposta a suo tempo dalle Forze armate francesi che addestravano gli iracheni baathisti.
Ma l’Isis diventa noto quando, nell’estate del 2014, riesce a catturare Mosul e quindi a organizzare la vasta massa di militanti che arrivano in Iraq portati dalla immane destabilizzazione siriana.
È una forza di 80-100mila elementi, che sono tanti per un’area grande quanto la Gran Bretagna ma popolata solamente di otto milioni di persone. È il vecchio “pericolo del deserto” come lo leggeva Lawrence d’Arabia, che lo paragonava all’oceano.
E allora, qual è il vero progetto dell’Isis? È quello della soluzione, modernissima e antica, come sempre nella teologia politica della jihad, della statualità coranica oggi.
La legge e la forma politica dello Stato sono definiti dal Corano e dalla prassi dei Califfi Ben Diretti, ma il titolo a governare del califfo è fondato solamente sul testo interpretato del Sacro Rotolo, e riguarda anche, fin dall’inizio, un dato etnorazziale: i fedeli sono arabi, non appartengono ad altre etnie bioreligiose. La rottura tra sciiti e sunniti riguarda anche il fatto che le popolazioni iraniche sono indoeuropee e gli arabi semiti.
Statualità e Religione, fin dagli inizi del sistema politico sunnita, sono ben distinte, anche se, come è ovvio, lo stato “secolare” è tutt’altro che privo di regolarità coranica.
L’Emiro, il comandante dei credenti, è colui che, sulla base del suo rapporto con gli interpreti più accreditati del Testo Sacro, giustifica il potere effettivo dei governanti dello Stato.
Non si tratta di insegnare ai potenti l’arte del governo, e si pensi a quanto la nostra tradizione politologica cristiana si basa questi criteri, ma di disegnare lo Stato Perfetto al quale il governante della prassi islamica deve per forza letteralmente adattarsi.
Il suo adattarsi al Verbo misurerà la durata del suo potere.
È, in termini islamistici, la logica machiavelliana del passaggio dal Principe Novo, che certamente era Muhammad, al Principato Antiquo, in cui il popolo ritiene la forma politica un dato naturale, come le stagioni e i cicli vitali.
L’ummah, la comunità dei credenti, non è quindi una nazione in senso occidentale, ma una comunità religiosa in cui i fedeli coranici hanno un’immagine, come peraltro accade all’Emiro, di sé stessi come una collettività connessa alla tradizione vivente del Sacro Rotolo.
Ma è l’immagine, creata dal Califfo, che li identifica sia come società sia come comunità (e non come Stato, per quello occorre l’accordo evidente e provato con le norme coraniche).
È proprio l’ummah ad avere bisogno, per realizzare il suo progetto sacro, di strumenti pratici per funzionare, che però non sono uno Stato né, tantomeno, un ordinamento giuridico, c’è già ovviamente il Corano.
L’imamato è allora una necessità puramente pratica.
L’Imam, nella tradizione sunnita, non è quindi per niente simile al capo militare o a un sovrano occidentale e cristiano.
L’imam sostituisce temporaneamente la profezia, e la segue bene se la attua letteralmente, realizzandola poi nella difesa della fede dagli “infedeli”, e, in questo senso, sostituisce l’amministrazione del mondo visibile adattandola al Testo Sacro.
Se l’Imam funziona, Egli prepara la strada al Principe Invisibile, il Mahdi della Fine dei Tempi, se invece l’Imam sbaglia, sarà il disordine politico a mostrare le inesattezze della sua interpretazione del Corano, ma la politica non è mai il Testo sacro, né mai si mescolano disastri politici con eventuali errori interpretativi.
È l’imamato che distrugge il politico, non viceversa.
L’Imam è quindi un organizzatore, e controlla l’esecuzione esatta della Legge secondo quanto stabilito dagli interpreti accettati, localmente, della stessa.
C’è allora poco di universalistico nell’Islam, salvo forse proprio la riforma jihadista che è iniziata con Osama bin Laden e la sua nuovissima teoria della jihad come quinto pilastro della Fede.
Quindi, l’Isis, per quel che abbiamo detto prima, è uno “stato” propriamente islamico ed una sfida reale per le monarchie e le repubbliche sunnite che si proclamino islamiche.
È quindi pronto un modello geopolitico contrario alle monarchie e alle repubbliche sunnite “serve degli ebrei e dei crociati”, che non hanno più il pedigree coranico adatto, e certamente l’Isis farà sempre più concorrenza alle petromonarchie e alle organizzazioni (pensiamo ai Fratelli Musulmani) che, in parte, hanno assistito e sostenuto la nascita della jihad della spada dall’11 Settembre in poi.
Il Califfato, senza una pesante sconfitta sul terreno, ingloberà l’area della “jihad permanente” e la porterà allo scontro, sia esso terroristico che convenzionale e militare.
E le due azioni andranno sempre in parallelo, secondo la logica di Al Baghdadi.