La situazione in Siria e Iraq, dove oggi imperversa lo Stato Islamico, sembra ogni giorno più confusa. L’ultimo elemento destabilizzante è lo scontro, sempre più forte, tra Russia e Turchia, che potrebbe avere importanti riverberi geopolitici e potrebbe inficiare la lotta, ancora troppo incerta, ai drappi neri. Mentre Usa e Russia all’Onu cercano un accordo per bloccare i fondi all’Isis.
LO SCONTRO RUSSIA-TURCHIA
Prima e dopo l’abbattimento del jet russo da parte di due caccia dell’aviazione turca, Vladimir Putin ha definito la Turchia come un Paese colluso con i drappi neri. Per ragioni strategiche, secondo molti osservatori c’è o c’è stata, ha raccontato Formiche.net, una morbidezza da parte di Ankara e suo del presidente Recep Tayyip Erdogan nel gestire la questione Isis, lasciando libero transito dai confini per combattenti e traffici del Califfato. Tra questi, oltre l’aspetto del rifornimento delle armi, c’è il commercio di petrolio, su cui Putin ha alzato i toni, dicendo, più o meno, che la Turchia ha abbattuto il Sukhoi perché Mosca sta combattendo una guerra allo Stato Islamico, mentre i turchi sono in affari con loro, gli comprano il petrolio, e la famiglia di Erdogan con suo figlio Bilal è direttamente implicata nei traffici del Califfo. Non si è fatta attendere la replica di Erdogan che, in un discorso dinanzi a sindacalisti ad Ankara trasmesso dalla tv, ha apostrofato come “immorali” le accuse rivolte dal governo russo contro di lui e la sua famiglia. E poi ha detto di essere a sua volta in possesso di “prove” che testimonierebbero il coinvolgimento della Russia nel contrabbando di petrolio dell’Isis in Siria.
UN DISSIDIO ANTICO
Per il professore ed editorialista Alessandro Corneli, ciò che accade tra Mosca e Ankara non deve stupire troppo. Nel rapporti tesi tra i due Paesi, spiega l’esperto di geopolitica, c’entrano poco le divergenze su Bashar al-Assad, alleato della Russia e ostile alla Turchia. “Sono elementi minori. Molti giornali riportano che fino a pochi anni fa Erdgoan e il dittatore siriano passavano le vacanze insieme”. Piuttosto, prosegue Corneli, “l’antagonismo tra Mosca e Ankara è antico. La Turchia è l’erede dell’Impero ottomano che, sostenuto dall’Inghilterra e poi dalla Francia ha bloccato l’accesso della Russia al Mediterraneo, una vera e propria diga che ne ha bloccato l’espansione. Il presidente turco ha voluto ricreare attorno alla Turchia quell’appoggio che aveva fino alla Prima Guerra mondiale e che poi è proseguito con Nato”.
UNA COALIZIONE DEBOLE
Se fossero vere le affermazioni dei due leader e degli stessi Stati Uniti, che accusano Putin di essere intervenuti in Siria a sostegno di Assad e non per combattere i drappi neri, chi sta davvero conducendo la guerra all’Isis? “Effettivamente”, dice il professore, “la capacità di resistenza dello Stato Islamico, rispetto alle forze dispiegategli contro sulla carta, è un po’ sorprendente”. Così come lo sono queste accuse incrociate. “I turchi devono sì procurarsi petrolio nell’area a loro più vicina, quella del Califfato. Ma si tratta di quantità irrisorie. Però anche la risposta di Erdogan è banale. I russi ne hanno molti, di idrocarburi. Non si comprende perché dovrebbero prenderli da lì, di minore qualità, arrivando a spendere persino di più mettendoci i costi di trasporto”.
LA POSIZIONE DELL’IRAQ
Piuttosto, rileva Corneli, “è vero ciò che gli esperti dicono da tempo: i drappi neri potranno essere combattuti davvero solo con truppe sul terreno”. Ma anche in questo frangente ci sono diverse anomalie. “Ad esempio ieri il premier iracheno Haider al-Abadi ha dichiarato che un dislocamento di truppe straniere in Iraq sarà considerato un atto di aggressione. Proprio nel momento in cui gli Usa pensavano di inviarne. Si capisce che si tratta di un modo per mettere le mani avanti e tutelarsi. Baghdad non vuole essere la piattaforma da cui partono attacchi diffusi. Ma le parole del primo ministro complicano ulteriormente le cose”.
L’ATTENDISMO AMERICANO
A pesare su questa incertezza, sottolinea il docente, è anche l’incertezza americana, che con qualche rischio sta lasciando troppo spazio alle azioni di Mosca, ma che potrebbe però venire meno da un momento all’altro. “Prima avevamo di fronte un modello bipolare, Est-Ovest, che bloccava le relazioni e creava compartimenti stagni. Si evita lo scontro diretto. Con la dissoluzione dell’Urss abbiamo assistito a una ritirata dell’attivismo russo in Medio Oriente. Quel vuoto fu colmato dagli americani con la guerra in Iraq prima e con la reazione all’11 Settembre poi. Ora, invece, è la Russia che sta approfittando del disimpegno americano, riprendendosi il ruolo che aveva lasciato. E, aggiunge Corneli, “potrebbe farlo anche in Libia se l’Egitto, sempre più in difficoltà per la crescita dei drappi neri nell’ex regno di Muammar Gheddafi, dovesse rivolgersi a Mosca per impedire che il Paese diventi la nuova base del Califfato”. Cosa potrebbe cambiare l’approccio della Casa Bianca? “Barack Obama è al termine del suo secondo mandato, non può fare progetti. Dovremo aspettare l’elezione del prossimo presidente per capire cosa accadrà”. Tuttavia ciò non è così scontato. “A cambiare le carte in tavola prima del tempo – rileva Corneli – potrebbero essere gli attacchi dell’Isis sul territorio americano. La genesi di quello a San Bernardino non è ancora chiara, ma ci sono tutti i presupposti perché si tratti di un attentato di matrice jihadista. Se ciò dovesse essere vero, sarebbe lecito attendersi una risposta degli Stati Uniti”.
I RISCHI DI UNA CRESCITA SCIITA
Se così non fosse, sottolinea l’esperto di geopolitica, potremmo trovarci davanti a una coalizione anti Isis opposta a quella americana, guidata da un “blocco” sciita, con Iran, la Siria di Assad, Hezbollah libanesi sotto il comando di Mosca. “La Russia per certi versi è già riferimento di tutta l’area sciita e anche nei Paesi dove esistono avamposti sciiti, come l’Afghanistan. Per i sunniti e soprattutto per l’Arabia Saudita, alleata occidentale, si tratta di una minaccia forte. Non è chiara quale sarà la reazione di Riad, ma è certo che anche il Regno debba uscire da una sorta di ambiguità. Finora ha finanziato in modo abbastanza evidente alcuni gruppi estremisti anche in chiave anti sciita. E questo non rafforza né la battaglia contro i drappi neri, né tantomeno la sua posizione e i rapporti con l’Occidente. Bisogna uscire dalla logica del conflitto interconfessionale o i rischi saranno amplificati, così come la forza dell’Isis”.