Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori, pubblichiamo l’articolo di Pierluigi Magnaschi uscito sul quotidiano Italia Oggi
Ci vuol poco a fare lo statista governando un paese che galleggia sul petrolio come il Venezuela. C’è riuscito, giocando sulla dissipazione delle risorse per fini cosiddetti sociali, Hugo Chavez, un istrione della pasta di Fidel Castro, anche se non della sua ferocia. In Venezuela infatti Chavez ha tenuto in vita una parvenza di democrazia. Certo, imprigionava gli avversari, li escludeva dalle elezioni, imbavagliava i media ma almeno consentiva le elezioni che, a questo punto, diventavano una finzione ma almeno consentivano un minimo di dibattito.
Morto per un tumore (dopo che Castro gli aveva assicurato che con i suoi medici de la revolution l’avrebbe rimesso in piedi in men che non si dica), quando però il sistema chavista era già arrivato al capolinea, è salito al potere Nicolas Maduro, una scialba controfigura di Chavez che, almeno, era un istrione, e che adesso è stato mandato a casa dopo elezioni truccate sì, ma che, essendosi tenute, non hanno potuto fare a meno di registrare, nelle urne, l’indignazione popolare.
Maduro, come del resto anche Chavez, era dell’idea che se il termometro registra una febbre troppo alta, anziché curare la febbre (ammesso di saperlo e di volerlo fare), è più facile rompere il termometro. Da qui, ad esempio, l’ordine dato recentemente, non a caso prima delle elezioni, alla Banca centrale del Venezuela di non diramare più le statistiche sull’inflazione. Intanto però le banche internazionali e gli istituti di ricerca economici stranieri stimano che l’inflazione in Venezuela sia oggi pari al 150%. Una prova più terra a terra viene dalla scatoletta di tonno che costava 200 bolivar nell’ottobre del 2014 e ne costa 500 oggi.
Un altro trucco praticato in questo paese che si regge sulla menzogna è il cambio. Il salario minimo infatti, che è pari a 7.421 bolivar, corrisponde ufficialmente a 1.100 dollari Usa in base al tasso ufficiale (e unilaterale), ma si riduce a 10 dollari in base al mercato parallelo cioè alla quantità di bolivar che un venezuelano deve sborsare sul mercato nero per ottenere un dollaro.
In Venezuela nessuno più lavora. Tutti, chi più chi meno, fanno solo i bachaqueros, cioè i trafficanti, i contrabbandieri. I dipendenti pubblici, che già lavoravano poco (del resto anche noi, dopo il caso del comune di Sanremo, non possiamo certo fare le prediche a nessuno), adesso fanno code chilometriche al supermercato per poter ritirare, con la libreta del razionamento, i beni in quantità simbolica e a prezzo fisso. Per impedire il commercio di queste razioni di sussistenza, chi le ritira, deve lasciare addirittura le impronte digitali.
In un paese come il Venezuela che è pieno di petrolio come una spugna, scarseggia anche la benzina. Da qui il contrabbando con la vicina Colombia dove il prezzo della benzina è il 4.000% più alto, in bolivar, rispetto a quello della benzina razionata in Venezuela. Anche qui, per fronteggiare la situazione, il governo ha rotto un altro termometro, questa volta transfrontaliero, decidendo, il 20 agosto scorso, di chiudere la frontiera con la Colombia, considerata improvvisamente un Paese ostile, solo perché i suoi cittadini possono acquistare ciò che vogliono. Il Venezuela, già profondamente corrotto, è diventato un verminaio dove, anziché veder spuntare il sol dell’avvenire, tutti, per sopravvivere, corrompono tutti .
Intanto il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha reso noto, il 6 ottobre scorso, che il pil venezuelano (già calato del 4% l’anno scorso) diminuirà di un altro 10% quest’anno e del 6% l’anno prossimo. Non solo, le riserve di valute internazionali sono crollate da 24 a 16 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno mentre sono imminenti cospicue scadenze di debiti.
Come si riesce a ridurre alla fame un paese come il Venezuela che cammina sul petrolio anche se la quotazione del grezzo è scesa a 40 dollari al barile? È semplice. Basta applicare le regole del comunismo. L’esito, in questo caso, è garantito. Anche perché si è regolarmente verificato in tutti i paesi dove il comunismo è stato adottato come sistema politico-sociale-produttivo. E ciò si è verificato anche in Cina che pure sembra un’eccezione, a questo riguardo, ma non la è. La Cina anzi ci offre un esempio da manuale di questa tesi. Infatti ci sono due Cine. Una, quella continentale, e l’altra quella di Taiwan. Dal 1948 al 1980 (quando l’economia cinese, pur restando formalmente comunista, venne profondamente liberalizzata) il reddito pro capite della Cina continentale e comunista era pari a un quarto di quello di Taiwan anche se l’economia di quest’isola era partita da zero e si era sviluppata in un’area piena di pietraie e priva di tutto. La Cina continentale era stata governata dal comunismo mentre Taiwan si era sviluppata adottando l’economia di mercato. Tutto qui.
Ma chi è comunista, resiste a tutte le repliche della storia. I vari Nichi Vendola, Fausto Bertinotti, Dario Fo, e compagnia rossa cantante, che vedevano nel Venezuela un modello politico da additare all’Italia, adesso stanno zitti anche perché basta aspettare, perché anche se a tutti (com’è giusto) si rimprovera il loro passato, i comunisti ne sono esentati. Non fa fino. E poi essi hanno una scusa: la crisi c’è perché è calato il prezzo del petrolio. Come se il Venezuela fosse il solo paese produttore di petrolio a esserne stato investito.