I prezzi del petrolio sono in caduta libera, ai minimi da sette anni. Un crollo che nasce da un eccesso di produzione che segnala non solo una divisione interna all’Opec, ma anche guerre incrociate, come quella tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita e quella, ad ampio raggio, tra Mosca e Washington.
Quali sono le ragioni, anche geopolitiche, di questo ribasso? Quali gli scenari? E che effetti produrrà sull’industria petrolifera – compresa Eni – e sull’intera economia mondiale?
Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con lo storico ed economista Giulio Sapelli, dal 1996 al 2002 nel cda del Cane a sei zampe, dal 1994 ricercatore emerito presso la Fondazione Eni Enrico Mattei e autore del pamphlet “Dove va il mondo” (edizione Guerini).
Professor Sapelli, perché i sauditi tengono così basso il prezzo del petrolio?
Questo gioco pericoloso nasce in funzione anti Usa. Ma quando la produzione di shale gas e tight oil è diventata sostenibile le mosse di Riyad hanno cambiato destinatario. In questo momento la manovra per tenere alta la produzione è rivolta principalmente contro i russi, che iniziano ad essere i principali alleati dell’Iran nella regione.
La strategia saudita sul greggio può essere inquadrata nello scontro, ampio, tra sunniti e sciiti?
Oggi sì. È un altro dei tasselli di quelle tensioni. Teheran, potenza sciita, ha preso posizioni molto aggressive in campo energetico, annunciando nuovi tipi di contratti commerciali molto più favorevoli per le multinazionali dell’oil&gas. Questo potrebbe cambiare radicalmente lo scenario, tanto più in un momento in cui un altro produttore rilevante, come l’Iraq, è governato dagli sciiti.
Che effetti possono avere le mosse di Riyad?
Innanzitutto effetti interni. La strategia saudita è talmente autolesionista che la stesse gente del Regno comincia a chiedersi contro chi sia questa guerra, che sta letteralmente scassando l’organizzazione tecnocratica del Paese. Le sue mosse, che pure mettano sotto pressione Russia, Iran e per certi versi gli Stati Uniti, potrebbero rivelarsi per Riyad una pietra tombale. Va considerato che i russi hanno una capacità di tenuta sociale molto più alta dei ricchi sauditi, che soffriranno molto dei mancati introiti derivanti dai prezzi bassi del greggio, tanto più in un momento in cui, in generale, l’Opec è divisa al suo interno e produce meno di dieci anni fa. E poi Washington ha dimostrato di voler continuare a finanziare lo shale anche di fronte a una sostenibilità non proprio ottimale, anche a costo di indebitarsi. E poi effetti esterni, da non sottovalutare. Quello saudita è un gioco estremamente pericoloso anche per l’intera economia globale, perché se il prezzo del barile non dovesse tornare a un valore “normale”, tra i 60 e gli 80 dollari, c’è il rischio che ciò abbia pesanti ripercussioni.
Anche la nostra industria petrolifera potrebbe pagare il prezzo di questi ribassi?
Penso che la nostra Eni sia riuscita finora a tamponare i rischi più grossi per le sue aree di influenza, quelli derivanti dalla crisi libica. In questo quadro non vedo grandi pericoli, semmai nuove opportunità, quelle legate alla situazione iraniana. Mentre con i Paesi del Golfo Persico l’Italia intrattiene un rapporto importante ma non privilegiato, con Teheran abbiamo mantenuto ottimi rapporti, che ci porranno in ottima posizione con la definizione dei nuovi contratti e la riapertura dei mercati dell’Iran.
Perché il Regno saudita si comporta in un modo apparentemente autolesionista?
I sauditi vogliono impedire che si crei una linea retta che dallo Stretto di Hormuz sul Golfo di Oman, passando per l’Iran e per l’Iraq sciita, attraversi la Siria ancora governata dagli alawiti e il Libano con Hezbollah. E per farlo hanno finanziato nel tempo anche gruppi jihadisti che ora, del tutto fuori controllo, imperversano nella regione. Ma Riyad vive al suo interno una fase di profonda crisi politica e per comprenderlo basta vedere quel che è accaduto di recente. Durante la visita di re Salman negli Stati Uniti, il sovrano si è fatto accompagnare dal fratello che dovrebbe succedergli, anche capo dei Servizi segreti. Ha messo così in crisi tutte le regole saudite relative alla successione, che nel Regno non è fondata sulla primogenitura, ma passa di fratello in fratello perché vige la poligamia. Queste tensioni stanno portando a scelte dissennate, come appunto quella del petrolio, che sta portando il Paese a indebitarsi, giungendo a una crisi fiscale terribile. E ad approfittarne potrebbe essere la Turchia.
Cosa potrebbe fare Ankara?
Senza dubbio le tensioni tra la Turchia e la Russia, arrivate al culmine con l’abbattimento del Sukhoi di Mosca da parte dei caccia di Ankara al confine siriano si può iscrivere in questo contesto. Conscio della crisi saudita, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha voluto lanciare un messaggio chiaro al mondo sunnita, proponendosi come punto di riferimento. I russi, che in Siria si alleano con l’Iran sciita a difesa di Bashar al-Assad, colpiscono i sunniti, non solo quelli dell’Isis. E allora la Turchia, in un certo modo, li difende. D’altronde la stessa rivalità tra Ankara e Teheran è antica, affonda le radici nelle storie dei vecchi imperi ottomano e persiano, e potrebbe dar vita a nuovi scontri nei prossimi anni, soprattutto con un Iran più forte se sollevato dalle sanzioni. Nulla di nuovo, è solo la Storia che ritorna.
Come reagirà l’Occidente a questo cambiamento?
Le politiche internazionali negli ultimi anni, in Medio Oriente e non solo, hanno spesso creato più problemi di quanti ne abbiano risolti. Errori che oggi paghiamo a caro prezzo ma che potremmo risolvere, o quantomeno ridurre, con l’identificazione di interlocutori stabili. In questo senso credo che, anche se gli Usa non hanno per il momento espresso valutazioni ufficiali sulla crisi di Riyad, nel tempo terranno conto di un rinnovato equilibrio di poteri che essi stessi hanno contribuito a creare con l’accordo sul programma nucleare iraniano.