In coincidenza con l’annuale raduno dei sostenitori di Matteo Renzi all’ex stazione fiorentina della Leopolda, dove dubito che Enrico Berlinguer si sarebbe mai lasciato tentare di affacciarsi, neppure per curiosità, l’Unità ha voluto chiudere in famiglia la lunga rievocazione dell’ultimo vero segretario dei comunisti italiani, essendo stati i suoi successori, francamente, poco più che comparse. In famiglia, perché a parlarne è stato chiamato il cugino Luigi. Che l’ha messa alla fine sul piano umano, consegnando o restituendo dello scomparso segretario del Pci, morto drammaticamente nel 1984 dopo un comizio elettorale, l’immagine per molti inedita di un uomo ironico, capace di ridere di se stesso e degli altri, senza bisogno di esservi trascinato in qualche festa dell’Unità dall’amico e compagno Roberto Benigni. Dal quale si lasciò prendere in braccio e dondolare come un bambino un po’ troppo adulto, fra le risate e gli applausi del pubblico.
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Quando Luigi Berlinguer ha cercato invece di ricordare il cugino su un piano strettamente politico, è stato francamente un disastro, avendolo rappresentato come un estimatore indefesso delle socialdemocrazie europee, un irriducibile sostenitore dell’alleanza con i socialisti, “al di là – ha detto, testualmente – della polemica tutta italiana con Bettino Craxi“. Polemica che fu invece la componente essenziale della politica berlingueriana, sino a morirne, come ha scritto onestamente l’ultimo segretario dei Ds-ex Pci, e attuale sindaco di Torino, Piero Fassino nel libro autobiografico “per passione”.
Enrico Berlinguer amava così poco i socialisti, e il riformismo di Craxi, da preferire un rapporto privilegiato con la Dc, alla quale nel 1976, quando negoziò con Aldo Moro l’appoggio esterno ad un governo a guida democristiana all’insegna dell’emergenza e della “solidarietà nazionale”, pose come condizione che non ne facesse parte il Psi. Fu infatti un monocolore dc.
Di che cosa parla, quindi, il professore Luigi Berlinguer, già ministro dell’Università e della ricerca scientifica con Carlo Azeglio Ciampi, ministro della Pubblica Istruzione con Romano Prodi e Massimo D’Alema, consigliere superiore della magistratura dal 2002 al 2006 e ora, con Matteo Renzi, presidente dei probiviri, o commissione di garanzia, del Partito Democratico.
D’altronde, proprio sull’Unità, e sempre nell’ambito del dibattito meritoriamente voluto dal direttore Erasmo D’Angelis sull’eredità di Enrico Berlinguer, è appena intervenuto anche Ciriaco De Mita per ricordare con franchezza quanto fosse stato messo in croce come segretario della Dc, nel 1984, dal segretario del Pci perché facesse cadere il governo di coalizione formato l’anno prima da Craxi. Dove i democristiani erano rappresentati dal vice presidente del Consiglio e presidente del partito Arnaldo Forlani e disponevano di una buona metà dei ministeri.
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Lo stesso De Mita, peraltro ancora orgoglioso di essere stato “democristiano da quando sono nato, ma mai anticomunista”, ha raccontato di avere tanto resistito alla crisi di governo sollecitata da Berlinguer da essersi sentito chiedere ad un certo punto perché mai tenesse alla Dc meno di lui, che pure ne era l’avversario, almeno elettorale. Una domanda che il segretario del Pci doveva portarsi dopo qualche settimana nella tomba.
Morto Berlinguer, che regalò dall’aldilà al suo partito ciò che non gli era riuscito da vivo, il sorpasso cioè della Dc, sia pure nelle elezioni per il rinnovo non delle Camere italiane ma del Parlamento europeo, De Mita ebbe come interlocutore il successore Alessandro Natta. Al quale sospettai personalmente che volesse concedere ciò che aveva ostinatamente negato a Berlinguer. E a questo punto vi racconto un episodio inedito.
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Eravamo nella primavera del 1985, particolarmente negli ultimissimi giorni della campagna elettorale per il referendum abrogativo, fortemente voluto da Berlinguer negli ultimi giorni di vita, contro i tagli alla scala mobile dei salari apportati dal governo Craxi per contrastare una galoppante inflazione a due cifre.
Incontrai casualmente De Mita a Montecitorio. Dopo i convenevoli agrodolci che mi riservava non perdonandomi di sostenere Craxi, gli chiesi perché da segretario del pur principale partito di governo non si fosse fatto sentire nella campagna referendaria. Perché sarà una sconfitta, mi rispose glaciale, fornito evidentemente di previsioni dimostratesi poi fondatissime almeno nella sua Nusco, dove prevalsero i sì all’abrogazione. Ma allora sarà crisi di governo, gli dissi. E lui mi rispose con una smorfia delle sue, tra lo scettico e il compiaciuto.
Ne rimasi talmente turbato da chiamare Craxi per informarlo. Lui bofonchiò qualcosa d’irripetibile decidendo all’istante di indire una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Dove annunciò che in caso di sconfitta al referendum, si sarebbe dimesso “un minuto dopo”. Fu la mossa del cavallo. A perdere il referendum il 10 giugno furono i comunisti, e gli altri che avevano scommesso sulla crisi.