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Vi spiego errori (e pregi) della strategia di Renzi in Libia. Parla Micalessin

Prosegue l’offensiva dell’Isis in Libia. Dopo giorni di battaglia nell’Est del Paese nei pressi degli impianti petroliferi, i drappi neri hanno attaccato ieri anche a ovest, a Zlitan, vicino a Misurata. Un’esplosione ha distrutto un campo di addestramento della polizia del governo di Tripoli, causando decine di morti. Un evento che interroga sui passi compiuti finora dalla comunità internazionale per pacificare l’ex regno di Muammar Gheddafi e sui progressi nella formazione di un governo di concordia nazionale che potrebbe a breve vedere la luce, ma sul quale si addensano ancora troppe nubi.

LE MOSSE DI RENZI

Per Gian Micalessin, reporter di guerra e giornalista del quotidiano Il Giornale, la strategia italiana per mettere in sicurezza il dirimpettaio nordafricano va in parte nella direzione giusta, ma ha il difetto di essere partita in forte ritardo. “Solo un folle – dice a Formiche.net – farebbe un intervento militare senza un piano politico, come di fatto è avvenuto nel 2011 con gli interventi di Francia e Regno Unito”, che scalpitano di nuovo. Però, aggiunge, “il presidente del Consiglio si è mosso tardi, ha lasciato decantare per una anno la situazione senza far niente”. Un errore di non poco conto, per diverse ragioni. La Libia “è la culla dei nostri interessi regionali. Oggi è difficile tenere a freno Parigi e Londra, perché abbiamo perso terreno e, se non ci muoviamo per recuperare il tempo perso, rischiamo di essere scavalcati”.

IL RUOLO DI FRANCIA E REGNO UNITO

Dei due Paesi, spiega il cronista, non bisogna aver paura, non sono nemici, ma di loro non bisogna nemmeno fidarsi troppo. “Francia e Regno Unito sono nostri alleati, ma non va dimenticato che hanno interessi concorrenziali ai nostri. Il petrolio libico fa gola a tutti. E la nostra Eni è l’unica che è riuscita a preservare le proprie attività anche dopo la deposizione di Muammar Gheddafi. Abbiamo gli strumenti per continuare a farlo. In questo anno non abbiamo sfruttato il vantaggio competitivo offerto dalla nostra intelligence, molto forte sul terreno. Ora dobbiamo darci da fare”.

IL SOSTEGNO AMERICANO

Per nostra fortuna, rimarca Micalessin, l’Italia non è sola in questa situazione. “Gli Stati Uniti, preoccupati anche dall’attivismo russo in Medio Oriente e in Siria in particolare, hanno deciso di dare una svolta alla situazione libica. E si rendono conto che siamo il miglior attore regionale per sbrogliare la matassa. Lo dimostrano i vari summit a cui ci hanno affidato un ruolo di primo piano, ultima la conferenza di Roma sulla Libia a cui ha preso parte anche il segretario di Stato Usa John Kerry. Ora però sta a noi prendere in mano le cose”.

COSA DEVE FARE ROMA

Secondo il reporter, l’Italia dovrebbe innanzitutto cambiare passo, scegliendo interlocutori affidabili sul terreno. “È impensabile continuare a mediare senza tener conto del fatto che manca al momento chi possa schierare uomini per pacificare il Paese. Noi occidentali potremmo farlo limitatamente, vista l’estensione della Libia. Quindi prima di tutto dovremmo puntare su qualcuno e avere una strategia chiara o rischieremo di essere coinvolti un’altra volta in un’azione militare di cui non avremmo il controllo. Dobbiamo essere in grado di essere guida in un contesto di alleanze, ma facendo leva sui libici stessi. Anche se mi rendo conto che, nel muoversi in una nazione così divisa, c’è anche una motivata prudenza. Penso ai quattro tecnici italiani della Bonatti di cui non si hanno notizie ufficiali e che potrebbero finire, o forse lo sono già, nelle mani dello Stato Islamico”.

IL FATTORE ISIS

Proprio i drappi neri, sottolinea Micalessin, sono oggi uno dei fattori più destabilizzanti sul suolo libico. “Non credo, come sostengono alcune analisi, che Abu Bakr al Baghdadi voglia davvero spostare il califfato in Libia. Vuole crearlo nel cuore del Medio Oriente. E poi il fulcro del suo esercito è in Iraq. L’attentato di ieri dimostra però che la ricerca di fonti di finanziamento, soprattutto attraverso il traffico di esseri umani e il petrolio, rappresenta un obiettivo primario per i jihadisti. In questo il Paese nordafricano è strategico. Senza contare che rappresenta la porta d’accesso non solo alla Tunisia e all’Egitto, ma anche all’Africa subsahariana, messa a dura prova anch’essa dalla crescita del fondamentalismo islamico”.

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