Il dibattito delle ultime ore sull’Europa è diventato pressante in quasi tutti i Paesi. L’inverno rigido non sta impedendo, infatti, agli enormi flussi migratori di attraversare il mondo per terra e per mare nel tentativo, quasi sempre disperato, di trovare rifugio e sopravvivenza.
Sappiamo molto bene tutti, e se n’è molto parlato un po’ ovunque, che il fenomeno appartiene ad una specie di destino storico del Vecchio Continente. Sicuramente siamo davanti alla prova più dura che dobbiamo affrontare e in qualche maniera superare.
I due pilastri su cui si regge l’Unione sono certamente la moneta, l’Euro, che ci vincola come cittadini ad un medesimo sistema economico, e la libera circolazione delle persone. Quest’ultimo, meglio conosciuto come Trattato di Schengen, costituisce il risultato politico più importante. Finché, infatti, un insieme di Stati continua a conservare dei confini interni, è chiaro che tale unità ha un valore relativo rispetto alla sovranità territoriale che è propria di ciascuno. Qualora, invece, come nel caso in questione, le barriere cessano di esistere, eccoci davanti ad una entità la cui gestione deve necessariamente essere affidata ad una sovranità condivisa.
Ora, la novità sopra citata è proprio il fatto che ormai in moltissimi Paesi la sospensione dei confini nazionali e la relativa estensione europea dello spazio chiuso è stata abbandonata, cedendo il passo ad un ritorno alle tutele statuali della propria integrità territoriale. Non soltanto i Paesi del nord e dell’est, ma adesso anche Germania e Francia, ne parlano come una conseguenza provvisoriamente necessaria al fine di garantire la sicurezza interna dei propri cittadini.
Jean-Claude Junker non ha nascosto per nulla la possibilità di un passo indietro di questo tipo, tanto più che esso è contemplato dallo stesso Trattato in casi eccezionali.
La domanda vera che dobbiamo rivolgerci è se abbia ancora senso parlare di Europa. E soprattutto che tipo di futuro può avere la sua unione politica ed economica.
Non è facile rispondere realisticamente a questo interrogativo. In tanto perché i tentativi di creare una sostanza politica sulla base di accordi federativi tra Stati ha mostrato tutta la sua fragilità e un suo essenziale fallimento. Non soltanto è impossibile gestire i confini, come si è visto, ma scelte lineari di politica estera in questi anni sono state assenti a causa di una continuo conflitto di interessi. D’altronde, l’opzione a favore di un rafforzamento militare e politico di Bruxelles non è mai andata oltre le buone intenzioni. Non è stato creato un esercito comune. Non è stata mai legittimata la nascita di un governo europeo propriamente detto. Le istituzioni comunitarie somigliano molto più a quelle dell’Onu che a quelle degli Stati Uniti: luogo di interessi e non di decisioni.
Eccoci dunque al nostro oggi, lacerato dalla sensazione che ormai l’Unione Europea sia al capolinea.
Nessuno lo dice, ma molti pensano ormai che la crisi di Schengen nasconda un’altra cosa molto più grave: la fine dell’Europa. In effetti, il mondo è molto cambiato in questo decennio. Tutti i Paesi si sono scoperti uniti tra loro, e lo spazio politico è divenuto terreno di una guerra globale. L’Europa si mostra troppo piccola rispetto all’intero, e troppo grande e debole per essere funzionale alle esigenze dinamiche e mobili dei suoi cittadini.
Non è semplice, però, chiudere bottega. E ancor più non è verosimile che si possa ritornare con facilità alle condizioni originarie degli Stati – nazionali. In tanto per il sistema economico e bancario, ormai strutturalmente gestito dalla Bce. Ma anche perché politicamente risulterebbe riduttivo e impraticabile il ritorno ad una gestione locale dei problemi politici, troppo complessi e dirompenti di fronte alla fragilità dei singoli Stati, indeboliti dall’aggancio comunitario.
I tempi sono maturi, invece, per una rifondazione dell’Europa su basi più politiche e più democratiche. Il paradosso del nostro continente è che viviamo in Stati democratici, e vogliamo creare istituzioni europee che non lo sono per niente. Il futuro dell’Unione esiste unicamente se tutti i cittadini che hanno titolarità di voto nei Paesi membri possano votare a suffragio universale un presidente comune. Il futuro è in un governo democratico europeo che superi le sovranità locali. Il modello è quello dell’impero e non quello della federazione.
Quando la sovranità popolare si affermerà, allora esisterà anche uno Stato unico che gestisce e governa dal suo vertice i problemi generali, e che garantisce sicurezza al proprio interno, facendo valere i confini di Schengen. In caso contrario finiremo lacerati e consumati da episodiche soluzioni difensive, poco efficaci davanti alla potenza politica e militare dell’Oriente.
D’altra parte, prima di allora, prima cioè della vera e propria creazione di una democrazia continentale, a poco varrà la retorica europeista, e a poco varrà chiudersi nel proprio orticello mentre tutto intorno va a fuoco.