Il festival di Sanremo si è aperto sotto il segno della gayetà: un arcobaleno che univa praticanti e simpatizzanti, part-time e convertiti, apostoli e icone pop dei circoli Lgbt. Anche perché oggi l’outing non è solo consentito, ma anche di moda e politicamente corretto. Le statistiche parlano di un gay ogni cento italiani, ma negli ambienti dello spettacolo la percentuale è molto più alta. Questa forte presenza di fratelli omosessuali è stata attribuita alla direzione di Carlo Conti, invitato a non nascondere la sua adesione alla confraternita (non l’ha mai fatto).
Madrina dell’apertura è stato Elton John. Questa grande star del rock, uno dei più famosi e ricchi (ma anche benefico) gay del mondo, è di certo l’incarnazione della legge Cirinnà: «sposato» da tempo con il regista canadese David Furnish, hanno due figli nati dal loro mix spermatico impiantato in un utero per la fecondazione, poi in un altro per la covata. Due padri e due madri. Anche in questa esplosione, peraltro garbata e contenuta, della gayetà il festival conferma un suo carattere: esprimere con forza le tendenze prevalenti nel nostro paese, proprio durante la discussione della legge sui diritti delle coppie omofile.
Ma Sanremo ha offerto al sociologo molto di più. Le venti canzoni in gara, nonostante la loro modestia, hanno sottolineato alcuni aspetti antropologici, presenti già negli anni scorsi, ma oggi accentuati. Possiamo cercare di definirli.
Anzitutto l’amore. Da sempre piatto forte delle canzoni, ma quanto diverso oggi dagli anni Cinquanta, quando nacque il festival. Allora tutto era «amore», che faceva rima con «cuore»: «Amami se vuoi», «Non ho l’età per amarti», «Dio come ti amo», «Quando dico che ti amo». Un’orgia di amore, l’unico cantabile, quello tra uomo e donna.
Oggi «amore» fa rima con «dolore». È un amore accettato nella provvisorietà come una bella e breve esperienza: «non so più se mi ami o no» (Dolcenera); «tu non mi hai capito mai» (Scanu); «cosa faccio, non lo so nemmeno io» (Arisa); «non so se ti amo» (Maître Gims); «non è mica la fine / semmai dovessimo fallire» (Bernabei).
Un amore sempre accompagnato dalla certezza che non potrà durare: «un giorno riderai di me» (gli Stadio); «l’amore di questa notte / non conta niente, sia maledetto» (Annalisa); «quanti sogni in un secondo / e in un secondo li hai distrutti» (Fragola); «via da qui, è finito tutto» (Caccamo-Jurato).
È un vecchio amore rimasto per pigrizia dentro la borsa, insieme col telefonino e le card, i trucchi e la vecchia foto di lui: «ci sei stata mille volte / ma non hai trovato niente / resta solo una borsa / piena di inutili ricordi» (Noemi). Negli anni trenta gli italiani cantavano «Il primo amore non si scorda mai». Titolo ora ripreso da Ruggeri con semantica capovolta: «Figli di sogni segreti perduti nel vento». Solo una canzone a Sanremo ha proclamato l’amore trovato: «né separazione, né esitazione, né divisione, una sola direzione» (Michielin).
Ma nelle canzoni non c’è solo amore, ormai ridotto al sesso. Anche altri aspetti della vita restano grigi e squallidi. Quella fenomenologia dello scacco, che l’epoca dell’esistenzialismo aveva tracciato soprattutto con Jaspers, Sartre e Camus, da alcuni anni trova una espressione popolare e anche populista nelle canzoni di Sanremo. Il disincanto non è evitabile: «Tutto passa, sogni e nostalgia» (Neffa); «vorrei tornare indietro, ma quanti sbagli» (Clementino); la delusione è insuperabile: «solo mentire / persi tra follia e vita» (Zero assoluto); «soltanto mezzo respiro ancora/ rifarò tutti i bagagli / per riempirli dei miei sbagli» (i Dear Jack). Anche la vita sociale appare sempre più degradata, disoccupazione ed emigrazione, soprattutto al Sud: «Wake up guagliù / un futuro vero non si vede» (Rocco Hunt).
È la sofferta consapevolezza della dissoluzione della personalità, che riempie tutta la letteratura dell’ultimo secolo e che Patty Pravo ha riassunto così: «Non sono io, nemmeno lei». Prevalgono, dunque, gli aspetti negativi dell’esistenza, non senza qualche nostalgia e speranza che le cose possano cambiare: quando riusciremo a «vincere l’odio», ci dice la filastrocca napoletana di Elio e le Storie Tese; o quando non avremo più guerre: «Cielo, se mi senti almeno tu / lascia che ci sia un angolo di blu» (Fornaciari).
Angoscia molta, passione poca. Il sentimento, un tempo elemento base delle canzoni, sarebbe rimasto fuori dal festival, se non ce l’avesse portato un matusa, quell’Elton John che vi costruì sopra la sua fama quasi mezzo secolo fa. La sua esibizione, da sola, sarebbe bastata a laureare con lode il festival: «Your song» (1969): «I tuoi occhi sono i più dolci che abbia mai visto» (Yours are the sweetest / Eyes i’ve ever seen); «Sorry» (1976): «Scusa, la parola più difficile da dire». Un amore al maschile o al femminile? La lingua inglese, i generi, non li distingue.
Sappiamo bene che il festival di Sanremo è soprattutto una impresa economica. E che parolieri, musicisti e cantanti debbono assecondare i gusti del pubblico. Inutile riferirsi a quei costumi, che non sono più di moda e che le giovani generazioni, per lo più, sentono come giochi di retorica: l’amore unico e perenne, l’altare, il sentimento e il sacrificio, la famiglia, i figli, la patria e la religione. Meglio fotografare quei caratteri prevalenti nella nostra società postmoderna, che i sociologi da tempo hanno definito: «Flessibile» (Sennet), «narcisista» (Lasch), «dell’incertezza» (Bauman), «del rischio» (Beck), «senza casa» (Berger), «vuota» (Lipovetsky). Chi non ha voglia di leggere le loro opere, basta che ascolti le canzoni di Sanremo.
(Pubblichiamo questo articolo uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori)