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Gli Stati Uniti, l’Europa e il terrorismo jihadista

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Il giorno seguente i molteplici attacchi di Bruxelles, alla domanda su come l’Europa può costruire l’apparato di sicurezza di cui necessita, il Primo Ministro francese Manuel Valls ha risposto esordendo “abbiamo l’Europa che ci meritiamo”. Questo l’incipit di un editoriale pubblicato dal Washington Post sulla crisi che il Vecchio Continente sta attraversando in materia di sicurezza.

Gli attentati, infatti, hanno portato molti a interrogarsi, lanciare strali, dispensare consigli e impartire lezioni. Esaurite le critiche, però, arriva il momento di elaborare una soluzione, poiché il terrorismo è una minaccia che non si cura di certe distinzioni, colpendo indiscriminatamente tanto l’Occidente quanto il Medio Oriente e zone limitrofe.

Ecco cosa si pensa negli Stati Uniti del ruolo giocato dall’Europa nella lotta al terrorismo.

LE PAROLE DEL WASHINGTON POST

Secondo l‘editoriale del Washington Post sono cinque gli elementi di cui l‘Europa deve tenere conto per arginare la minaccia jihadista.

Innanzitutto solidarietà, sia all’interno di ciascun paese di cui si compone l’Unione europea, che reciprocamente, tra tutti e 28 gli Stati membri. Secondo David Ignatius, firma dell’editoriale, “l’Europa deve essere più accogliente, ma questa è solo una parte del percorso. I musulmani devono rispettare gli obblighi che essere cittadino europeo implica”. Piuttosto che ghettizzarla e discriminarla, l’Europa dovrebbe comprendere il potenziale che risiede nella popolazione musulmana che accoglie. Così come numerosi cittadini americani di fede musulmana, dopo l’undici settembre, decisero di collaborare con le autorità a stelle e strisce, al fine di dimostrare la loro fedeltà all’America, anche l’Europa dovrebbe invogliare i suoi cittadini musulmani a fare lo stesso. “I musulmani europei devono sentirsi parte integrante del sistema di sicurezza, piuttosto che vedere nella polizia un esercito di occupazione”, prosegue Ignatius.

Il secondo elemento è la giustizia. Ignatius critica il sistema elitario intorno cui si erige l’Unione europea e all’interno del quale “le compagnie e le nazioni potenti prosperano, mentre i deboli soffrono”.

A seguire, la crescita – intesa non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi – degli apparati di intelligence. Secondo Ignatius agli europei non piace parlare di intelligence e per questo spesso si pretende che i loro paesi non compiano attività di spionaggio. “Questo approccio immaturo li rende (i paesi europei) incapaci di richiedere accountability ai proprio servizi di sicurezza […] Come si può pretendere di riformare qualcosa riguardo il cui funzionamento si è reticenti a parlare onestamente?”, si domanda Ignatius.

Quarto requisito è l’urgenza di una collaborazione transatlantica, che sia commisurata alla serietà della crisi. “I leader di Europa e Stati Uniti dovrebbero darsi appuntamento […] e presenziare al summit finché un piano comune per la condivisione di informazioni non sia stato concordato”, scrive Ignatius. Secondo il Washington Post la farraginosa ed eccessivamente elaborata burocrazia europea non aiuta a raggiungere un simile scopo, da qui la necessità che il Presidente Obama – più popolare in Europa che non in casa propria, dice Ignatius – presieda e guidi il partenariato.

Infine, l’urgenza di pensare in prospettiva, al fine di comprendere con anticipo la natura del problema per non farsi trovare impreparati. “Si tratta di un problema comune, e le soluzioni richiedono una visione altrettanto comune della governance, dello sviluppo economico e della tolleranza globale […] Le cose non miglioreranno senza l’aiuto americano. Ora è il tempo di agire”, conclude Ignatius.

IL PARERE DI HILLARY CLINTON

Sebbene il discorso rivolto da Hillary Clinton, il 23 marzo, alla Stanford University sia precedente all’editoriale di Ignatius, questi presentano alcuni punti di contatto. Che a fronte della crisi che da mesi si trova a fronteggiare – senza grandi successi, dati gli eventi – l’Europa debba fare di più, e che il supporto degli Stati Uniti non sia un elemento trascurabili, sembra essere, allora, opinione condivisa. “C’è molto che noi possiamo fare per supportare i nostri partner europei, ma anche loro devono fare altrettanto per condividere quest’onere con noi”, si legge dall’agenzia di stampa britannica Reuters, in un pezzo sul discorso tenuto dalla candidata democratica.

Secondo l’ex first lady l’Europa deve, innanzitutto, arrestare il flusso di foreign fighters che, stabilitisi nel Vecchio Continente, viaggiano da e per il Medio Oriente senza troppe difficoltà. Sebbene la Clinton sia consapevole che l’Europa sia maggiormente esposta al problema – sia per la vicinanza geografica con le aree in cui futuri jihadisti si recano per addestrarsi e radicalizzarsi, sia per la maggior libertà di movimento di cui questi godono una volta aver ottenuto un passaporto europeo – Hillary non chiude gli occhi di fronte alle indubbie responsabilità del Vecchio Continente, il cui sistema di sicurezza, recentemente, e più volte, ha dato prova di avere delle falle. Secondo la candidata democratica, infatti, il problema di portata maggiore risiede nel fatto che i paesi europei non comunicano agli stati confinanti dell’espulsione, dal proprio territorio, di soggetti considerati sospetti. In altro parole, come in questi giorni si è spesso sentito dire, gli Stati membri dell’UE mancano di cooperazione. “È più semplice per gli Stati Uniti ottenere la lista dei passeggeri provenienti dall’UE, che non per alcuni paesi limitrofi, grazie a un accordo che gli Stati Uniti hanno negoziato mentre io ero Segretario di Stato”, ha proseguito Hillary.

Proprio perché il problema riguarda da vicino l’Europa, ma al contempo gli Stati Uniti non possono considerarsi estranei alla questione – sia per motivi lealtà nei confronti del longevo alleato, che per questioni di carattere più strettamente geopolitico – la Clinton non solo ha proposto di ricostituire un nuovo ed unico confine europeo, ma ha elogiato anche la NATO, definendola uno dei migliori investimenti che l’America abbia mai fatto.

Infine – come sostenuto anche da Ignatius – l’ex Segretario di Stato ha sottolineato il potenziale rappresentato dai musulmani moderati nella lotta al terrorismo, condannando le retoriche offensive e controproducenti – tipiche dei rivali repubblicani Trump e Cruz – che demonizzano indistintamente tutti i musulmani, inclusi quelli che potrebbero schierarsi al fianco dell’Occidente nel contrastare la deriva jihadista.

IL PUNTO DI VISTA DELL’EUROPA

Non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, c’è chi sembra condividere le tesi proposte da Ignatius e sposate da Hillary Clinton.

Il 23 marzo, nel commentare gli attentati di Bruxelles del giorno precedente, Tomas Pojar – ex ambasciatore ceco presso lo Stato ebraico – ha affermato che “l’Europa dovrebbe smetterla di criticare gli Stati Uniti e Israele per le loro misure antiterrorismo, piuttosto dovrebbe iniziare a prendere lezioni da questi due paesi”, si legge su quotidiano Prague Daily Monitor.

L’eliminazione di attacchi programmati è il risultato del lavoro delle forze armate e la distruzione delle cellule terroristiche il frutto della cooperazione internazionale e dello scambio di informazioni […] L’Unione europea ha criticatogli Stati Uniti per raccogliere troppe informazioni, ma nei momenti critici essa non ha esitato e chiedere all’America di condividere le proprie […] Israele difende le sue istituzioni democratiche e la sua libertà da settanta anni e la sua società è stata regolarmente oggetto di attentati terroristici. Nonostante i cospicui investimenti nel campo della difesa, Israele rimane un paese democratico e prospero”, ha proseguito Pojar.

Il membro del Parlamento europeo Ludek Niedermayer centra la questione, laddove esplicita il trade-off nel quale sono intrappolate le istituzioni europee e che finora ha reso difficile la cooperazione di cui c’era – e c’è – bisogno in materia di sicurezza. “Ci sono due ostacoli alle capacità di difese dell’Europa: i paesi che sono contrari all’adozione di misure comuni, perché non sono disposti a rinunciare a una parte della propria sovranità, e i singoli individui che non vogliono fare a meno dei propri diritti”, ha affermato Miedermayer, come riportato dal quotidiano ceco. È difficile rintracciare una soluzione perché […] è necessario trovare un equilibrio tra la libertà personale e un elevato livello di sicurezza, ho proseguito Miedermayer.

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