Seconda parte dell’analisi dell’economista Gianfranco Polillo su come e perché il debito di Roma è fuori controllo; qui la prima parte
Per avere un’idea delle incongruenze finanziarie, siamo andati a rivedere l’andamento dell’Euribor che, com’è noto, rappresenta il parametro su cui calcolare l’interesse sui mutui. Nel luglio del 2010 quello a 12 mesi era pari all’1,37%. Un piccolo picco l’anno successivo, comunque inferiore al 2%, per poi scendere progressivamente fino a giungere, all’incirca dall’inizio di quest’anno, a valori pari a meno 0,01%. Nella relazione al Parlamento, Massimo Varazzani aveva voluto precisare che “il debito finanziario… deve essere pagato a scadenza delle relative rate“. Nei suoi confronti “non è esercitabile il potere transattivo, ma, eventualmente un’attività di rinegoziazione“. E’ stata tentata? Non sembra, stando ai numeri visti. Quando, invece, esistevano ed esistono tutt’ora almeno due diverse possibilità.
La prima era quella di rinegoziare il tasso d’interesse, approfittando della curva discendente dell’Euribor. Attualmente le banche rinegoziano i vecchi mutui dei privati ad un tasso fisso dell’1,5 per cento. Per i comuni in predissesto finanziario, la Cassa depositi e prestiti concede rinnovi a meno dell’1%. Forse il Comune di Roma non era e non è in queste condizioni? Ecco cosa scriveva Varazzani, nella sua relazione al Parlamento, nel 2014 ricordando “succintamente come, a seguito di una situazione finanziaria critica, che ha rischiato di paralizzare l’attività istituzionale del Comune di Roma, sia stata emessa una normativa speciale volta a scongiurare la dichiarazione di dissesto“. Peccato solo che questa consapevolezza non si sia tradotta in un’azione conseguente nei confronti degli Istituti mutuanti. In questa seconda eventualità, una riduzione al 2,5 per cento del tasso d’interesse sui vecchi mutui – con l’esclusione di quello sui BOC – avrebbe comportato un risparmio di oltre 2 o 3 miliardi.
La seconda alternativa era quella di negoziare le scadenze dei singoli mutui. Secondo un grafico, contenuto nella relazione della Scozzese, seppure poco leggibile, risulta evidente una forte asimmetria. Le quote capitale delle rate di ammortamento sono molto elevate – oltre i 400 milioni di euro – nei prossimi 13 anni (dal 2016 al 2029) si riducono quindi a meno della metà per gli anni seguenti (fino al 2047) per poi esplodere l’anno successivo. Scadenza del BOC. Si poteva avere una rata costante nel tempo per la quota capitale (meno di 250 milioni) cui far fronte con i 500 milioni stanziati a bilancio da parte del Tesoro. Con la restante metà si potevano coprire gli interessi e rimborsare gli eventuali debiti non finanziari. Inutile dire che entrambe le soluzioni potevano essere combinate tra loro alla ricerca del miglior punto d’equilibrio.
La scelta compiuta è stata invece un’altra. Nessuna trattativa con le banche, ma sconto dei contributi che gravano sul bilancio dello Stato. Quei 500 milioni all’anno per 30 anni: di cui 300 milioni a carico della fiscalità generale e 200 pagati esclusivamente dai romani – per un totale di 6 miliardi a “finire” – con l’aumento dell’addizionale comunale Irpef e la tassa sugli imbarchi da Fiumicino e Ciampino. Costo dell’intera operazione: oltre 4,6 miliardi. Parte dei quali (2,6 miliardi) fortunatamente risparmiati, avendo il nuovo commissario, Silvia Scozzese, deciso di non procedere lungo questa strada rovinosa. Strategia che spiega le differenze iniziali dei numeri da cui siamo partiti. Non sono ancora quei 4/5 miliardi che spiegano interamente le due distinte previsioni (Verazzani vs. Scozzese) ma una delle possibili chiavi è stata trovata.
Vale la pena allora riprendere il ragionamento nel suo complesso. A valore di libro, i debiti della gestione, al netto degli interessi, nel luglio del 2010, erano pari a 10,065 miliardi. I contributi dello Stato a 15. Vi era pertanto una differenza positiva di circa 5 miliardi: necessari per pagare gli interessi – dopo aver rinegoziato – ed i costi della struttura. Vale a dire della stessa gestione. Situazione in equilibrio. C’era sempre la possibilità che i debiti – specie quelli fuori bilancio – si dimostrassero più elevati. Ma lo Stato, in questo caso, poteva aumentare il suo contributo. Come avvenuto del resto con il decreto legge 16/2014: altri 30 milioni per 30 anni (totale 1,087 miliardi) che scontati hanno reso solo 569,5 milioni. Oppure che i crediti vantati avessero la consistenza delle “farfalle” di una volta. Cifre comunque gestibili, rispetto alla mole degli oneri dovuti allo sconto dei contributi. Operazione realizzata ad un tasso di interesse medio di circa 1,5% che si aggiunge a quel 5% iniziale: tutto a carico della gestione e a vantaggio degli Istituti di credito.
Questo quindi il quadro che spiega alcune cose, ma lascia irrisolti molti interrogativi che qui riepiloghiamo. Perché i mutui non sono stati rinegoziati? A quanto ammonta l’onere aggiuntivo dei diversi “derivati”? Come è stato utilizzato quel miliardo e mezzo circa, anticipato dal Tesoro per gli anni 2008 – 2010, considerando che la massa passiva netta, accertata nel 2008 da un apposito decreto ministeriale, al di fuori delle altre operazioni a saldo zero, rimane sostanzialmente stabile? A quanto sono ammontati i costi della gestione: stipendi percepiti, consulenze, bonus, spese d’esercizio e via dicendo? Domande, al momento, senza risposte. Attendiamo quindi che qualcuno intervenga: il commissario straordinario con il suo “piano di rientro” al 31 gennaio, dopo il timbro del MEF (Legge 28 dicembre 2015, n. 208 comma 751). Tempo, purtroppo, abbondantemente scaduto. Oppure la magistratura contabile se non addirittura quella inquirente. Noi restiamo, comunque, in fiduciosa attesa.
(2.fine)