Skip to main content

Vi dico chi ha interesse a rottamare l’Ilva

Bisogna ritornare a commentare un documento pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Comunità europea qualche settimana fa e recante la firma della Direzione generale della Concorrenza della Commissione UE. In esso al punto 116 di una relazione lunga 19 pagine si scrive che anche il prestito ponte di 300 milioni di euro concesso dal governo all’Ilva “potrebbe costituire aiuto di Stato”.

I servizi dell’Esecutivo di Bruxelles che vigilano sul rispetto delle norme sulla concorrenza hanno proposto così di estendere a tale prestito l’inchiesta già aperta a inizio anno sul pacchetto di misure pubbliche in favore di quel gruppo per un valore di circa 2 miliardi, nonostante gli ultimi 300 milioni prestati alla società debbano essere restituiti dai suoi acquirenti o affittuari. Ora, se è vero sotto il profilo strettamente procedurale che l’estensione dell’indagine – che comunque non pregiudicherebbe l’eventuale via libera agli 800 milioni destinati alla salvaguardia dell’ambiente e della salute pubblica nello stabilimento siderurgico – consentirebbe all’Italia e a tutte le altre parti interessate di presentare a Bruxelles le proprie osservazioni, bisogna ricordare tuttavia che l’orientamento della UE sulla pratica Ilva non sembra particolarmente favorevole.

Il neo ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda afferma che tale intervento non pregiudica il processo di vendita della società e – aggiungiamo noi – deve affermarlo per rassicurare i potenziali acquirenti (o affittuari), ma è del tutto evidente – come ha affermato giustamente il segretario nazionale della Uilm Rocco Palombella – che il rischio di interferenza della decisione degli organismi comunitari c’è, ed è rilevante. Infatti, anche non volendo minimamente supporre che a livello di Commissione Europea si intenda in qualche modo ingerirsi sul percorso di vendita dell’Ilva, quale compratore di fronte a tali orientamenti degli organismi competenti della UE – al momento comunque non ancora giunti a decisioni conclusive – non sarebbe indotto a riconsiderare per lo meno i termini finanziari della propria offerta, dovendosi preoccupare di eventuali oneri aggiuntivi derivanti dall’obbligo di restituire allo Stato, oltre ai 300 milioni, quanto altro fosse riconosciuto alla fine come aiuto pubblico?

Com’è noto, peraltro, sono state Eurofer, l’associazione dei produttori di acciaio europei, e la Thyssen Krupp a sollecitare l’apertura di un’inchiesta sui finanziamenti al gruppo italiano da parte del nostro Esecutivo, ratificati comunque dallo stesso Parlamento.

Alla luce di quanto appena riportato, la domanda che ci si pone è la seguente: non è sempre più evidente il disegno di chi fra i produttori di acciaio europei – ma anche di settori dell’estremismo ambientalista ionico – vorrebbe creare le condizioni anche economico-finanziarie per puntare nei fatti alla dismissione dell’impianto siderurgico tarantino? Togliere dal mercato in una fase di contrazione della domanda la sua capacità produttiva di 10,5 milioni di tonnellate significherebbe aver operato a nostre spese nella UE la riduzione impiantistica che viene propugnata dai più temibili concorrenti dell’Ilva.

Allora, se questa domanda ha un qualche fondamento, sarebbe bene ribadire con assoluta chiarezza che, oltre a tutte le controdeduzioni che il governo Renzi presenterà nelle sedi competenti di Bruxelles, bisognerebbe incominciare ad affiancare l’azione diplomatica con grandi manifestazioni di piazza, da Taranto a Genova e a Novi Ligure, per riaffermare con forza che l’Ilva ‘non si tocca’ e che sullo smantellamento della sue capacità produttive ‘non si passa’: ed una manifestazione popolare, se del caso, potrebbe giungere sino alle soglie del Parlamento e della Commissione Europea  nella capitale belga.

Aiutando così l’Esecutivo nel difficile negoziato con la Commissione, siano vigili e combattivi allora i Sindacati confederali e di categoria, la Confindustria nazionale e quelle locali di Genova, Taranto e del Piemonte, la Federacciai, tutte le aziende dell’indotto, le banche creditrici della società – qualcuna delle quali vigilata dalla Bce – Parlamentari italiani ed europei, le tre Regioni (Puglia, Liguria e Piemonte), consiglieri regionali e comunali, i centri di ricerca dei Politecnici di Torino, Milano e Bari, gli Agenti marittimi, gli autotrasportatori e le loro associazioni di categoria, le Autorità portuali di Genova e del capoluogo ionico, le Diocesi arcivescovili dei due capoluoghi. tutti gli organi di informazione, e le Istituzioni comunali con i Sindaci delle cittadine liguri e ioniche ove vivono migliaia di operai dell’Ilva.

La mobilitazione, insomma, dovrà essere corale e assumere, se fosse necessario, nelle storiche piazze liguri e pugliesi caratteri e dimensioni che vorremmo immaginare come epocali: a Genova gli operai dell’Ilva nelle scorse settimane hanno paralizzato la città con il consenso dei suoi abitanti. A Taranto, dopo le grandi manifestazioni operaie del 30 marzo, del 26 luglio e del 2 agosto del 2012, solo di recente i Metallurgici e i loro sindacalisti sono tornati in corteo nelle vie cittadine.

Taranto e l’Italia non possono e non devono perdere un pilastro del sistema produttivo nazionale che contribuisce a conservare il nostro fra i Paesi più industrializzati al mondo, come giustamente sottolineano da tempo il Presidente del Consiglio Renzi, la Confindustria e i Sindacati. E una nuova grande mobilitazione a Taranto potrebbe collegarsi ad un’altra grave emergenza del lavoro e della produzione come quella della Val d’Agri, ove il sequestro senza facoltà d’uso dei pozzi petroliferi e del Centro Oli di Viggiano, oltre a mettere a rischio 6.000 occupati fra diretti e indotto anche nella raffineria tarantina – non chiusa al momento ‘per senso di responsabilità dell’Eni’ – sta producendo perdite economiche ogni giorno più pesanti per la holding petrolifera e le imprese di subfornitura, che non hanno le spalle robuste della grande società dalle cui commesse in buona misura tuttora dipendono.

Perché allora le segreterie regionali di Cgil, Cisl e Uil di Puglia e Basilicata non organizzano una grande e combattiva marcia per il lavoro che unisca idealmente Brindisi, Taranto e la Val d’Agri? Una marcia per il lavoro, lo sviluppo e la difesa della produzione industriale, non certo contro le imprese Eni ed Ilva, ma per aiutare il Governo e riaffermare agli occhi della UE e degli organi giudiziari di Potenza il diritto all’occupazione delle migliaia di operai, tecnici, quadri e dirigenti di grandi stabilimenti a Brindisi, Taranto e in Val d’Agri, ove ci giochiamo non pochi punti di Pil della Puglia e della Basilicata che hanno poi diretta incidenza su quello del Paese. Ora più che mai, insomma, emerge il carattere e l’importanza strutturalmente ‘nazionale’ di alcuni dei maggiori impianti del manifatturiero e delle attività estrattive delle due regioni contermini di Puglia e Basilicata, ormai da anni punti di forza dell’intera economia italiana.


×

Iscriviti alla newsletter