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Le confuse storielle di Achille Occhetto

Achille Occhetto, 80 anni compiuti il 3 marzo scorso, non risulta essersi speso molto nella campagna elettorale amministrativa appena conclusa per sostenere a Roma, e altrove, i candidati di quel che resta della sinistra movimentista. Dove egli è approdato non riconoscendosi più nelle creature politiche nate dalla decisione presa nel 1989, praticamente sotto le macerie del muro di Berlino, di cambiare nome e simbolo al più forte partito comunista d’Occidente, di cui gli era capitato di essere l’ultimo segretario.

Forse Occhetto è deluso anche dalle troppe divisioni della sinistra movimentista, che ha ormai più sigle o correnti che voti. I suoi pezzi o pezzettini si rimettono insieme ogni tanto, con liste e candidati, non per vincere qualche partita, ma solo per cercare di farla perdere all’ormai odiato Pd guidato da quell’intruso che è considerato Matteo Renzi.

A Roma l’obiettivo neppure nascosto dei compagni di Occhetto è quello di far mancare al renziano Roberto Giachetti i voti necessari per arrivare al ballottaggio del 19 giugno con la grillina Virginia Raggi. Che ad ogni buon conto l’ex vice ministro piddino dell’Economia Stefano Fassina, candidato a sindaco della sinistra movimentista riammesso in gara dal Consiglio di Stato all’ultimo momento, ha dichiarato pubblicamente di preferire a chiunque dovesse contenderle la vittoria nel secondo turno, compreso appunto Giachetti. O soprattutto Giachetti.

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Piuttosto che impegnarsi in una campagna elettorale francamente così imbarazzante per uno col suo passato, Occhetto ha preferito riflettere sugli anni andati e partecipare sull’Unità al dibattito culturale e politico avviato con un saggio –“stimolante come sempre”, ha riconosciuto- di Biagio De Giovanni sul 1989, l’anno cioè della già ricordata demolizione del muro di Berlino, e sulle troppe speranze, trasformatesi poi in illusioni, generate dalla fine del comunismo. Che è ormai sopravvissuto, come un ossimoro, solo nella versione capitalistica della Cina o in qualche regime penosamente personale.

Occhetto è rimasto orgoglioso del “mio”, cioè suo, 1989 per averne intuito e quasi preceduto il passo con quella sua corsa alla Bolognina, fra i compagni dell’omonima sezione del Pci, e l’avvio delle procedure per archiviare nome e simbolo del partito ereditato da Alessandro Natta, Enrico Berlinguer, Luigi Longo, Palmiro Togliatti e addirittura Antonio Gramsci, e tentare la navigazione al largo di una sinistra finalmente più ampia. Dalla quale ha negato di avere mai voluto escludere i socialisti, naufragati per conto loro, non perché lui li avesse buttati giù dalla barca, o non avesse voluto soccorrerli. Naufragati, in particolare, prima per la preferenza che anche dopo il 1989 Bettino Craxi continuò ad accordare al rapporto di alleanza di governo con la Dc e poi per la maledetta vicenda giudiziaria di Mani pulite. Che Occhetto giura di non avere previsto né cavalcato, una volta che scoppiò, anche se la sensazione che se ne ebbe fuori e dentro il suo stesso partito, a dire il vero, fu opposta.

A dimostrazione della sua rappresentazione della realtà Occhetto ha ricordato il dialogo che personalmente aveva intrecciato, scegliendolo come interlocutore privilegiato fra i socialisti, con Claudio Martelli. Che in effetti si illuse ad un certo punto, nel 1992, anche a costo di insospettire e poi di rompere con l’amico Bettino, di poter formare dopo le elezioni un governo capace di contare sull’appoggio o sulla benevola opposizione del Pds-ex Pci. Ma ad un certo punto –si è rammaricato Occhetto- pure Martelli venne travolto dalla tempesta giudiziaria con la storia del conto svizzero Protezione, dimettendosi da ministro della Giustizia. “Il migliore dei ministri della Giustizia” succedutisi anche dopo, riconobbe poi in una intervista l’insospettabile Francesco Saverio Borrelli, capo allora della Procura di Milano.

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A sentire e a leggere Occhetto, quindi, i comunisti o come altro preferirono chiamarsi dopo il 1989 non vollero profittare della stagione giudiziaria di Tangentopoli. Furono altri, secondo lui, a cavalcare il giustizialismo e ad alimentare la rabbia popolare, seminando il campo dell’antipolitica. Furono, in particolare, i leghisti di Umberto Bossi e la destra di Gianfranco Fini. Che quel furbacchione di Silvio Berlusconi, non immaginando evidentemente la fine che avrebbe poi fatto pure lui nei rapporti con la magistratura, riuscì a legare a sé alla vigilia delle elezioni politiche del 1994 per vincerle. E sconfiggere impietosamente la sinistra che proprio Occhetto aveva organizzato in un cartello di cosiddetti progressisti, pur non candidandosi personalmente –ha precisato- alla guida del governo. Egli progettava in caso di vittoria –ha rivelato- un governo di coalizione presieduto da chi già era a Palazzo Chigi ed aveva gestito da lì le elezioni anticipate: Carlo Azeglio Ciampi.

E noi, poveri cronisti, osservatori, editorialisti e quant’altro, avevamo invece capito che a Palazzo Chigi volesse andare proprio lui, Occhetto, consumando in una lunga e inutile attesa Mario Segni. Senza i cui referendum elettorali, con il combinato disposto, chiamiamolo così, della tempesta giudiziaria di Tangentopoli, la sinistra di provenienza comunista non sarebbe certamente sopravvissuta al 1989.

Oltre alla contestata conversione di Roberto Benigni al renzismo, o quasi, al solito interesse di Matteo Renzi più al referendum d’autunno sulla sua riforma costituzionale che alle torri municipali, all’assenza di Beppe Grillo dal raduno della sua pur più quotata candidata a sindaco, in quel di Roma, e alle solite frecciate tra gli altalenanti alleati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, la campagna elettorale ci ha dunque regalato nelle ultime battute anche questa curiosa storia del 1989 e anni successivi riscritta da Occhetto. Che sembra sentirsi l’ex protagonista più incompreso e ingiustamente penalizzato.


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