Passate le prime 48 ore dalla fine dei ballottaggi è adesso possibile fare un bilancio chiaro del significato netto dei risultati.
In primo luogo è necessario subito osservare che le indicazioni elettorali che sono emerse non hanno un valore solo amministrativo e regionale, e quando mai, d’altronde, ciò è accaduto in Italia, ma disegnano uno scenario che sarà il piano di lavoro dei prossimi mesi per tutte le forze politiche.
In secondo luogo è chiarissimo il quadro di natura tripolare che caratterizza ormai in modo sistematico la politica italiana.
Da un lato vi è il PD sorretto e guidato, sia pure con una dialettica interna che andrà acuendosi inevitabilmente, dalla leadership di Matteo Renzi; dall’altro vi è il centrodestra tradizionale che regge quando è unito, malgrado le difficoltà di cui parleremo tra poco; e in terza istanza il M5S che si è mostrato come la vera rivelazione di queste elezioni, conquistando le città di Roma e di Torino.
Tripolarismo, per un verso, e consolidamento dei consensi non di protesta ma di progetto sui Grillini, dall’altro, costituiscono insieme il dato iniziale da cui partire per discutere. A ciò deve aggiungersi, inoltre, la constatazione, fatta emergere stamani da Pierluigi Bersani, di una prima sonora battuta di arresto dell’ascesa renziana, associata al carattere alternativo del M5S rispetto al PD e competitivo rispetto a tutta la costellazione del centrodestra.
Questa ulteriore precisazione non prospetta un futuro immediato facile per Renzi che dovrà affrontare un referendum di ottobre sulle riforme istituzionali, declinato nella misura di un plebiscito personale su se stesso, che permetterà di aggregare contro di lui al copioso fronte del No anche la minoranza interna del proprio partito.
Se, dunque, Renzi dovrà lavorare per convincere gli italiani che il suo progetto di riforme è ancora vivo e convincente, e se Grillo dovrà dimostrare che i suoi nuovi sindaci e la sua classe dirigente giovane sono in condizioni di governare bene l’intera nazione, il fronte veramente aperto è sicuramente quello del centrodestra.
Quest’ultimo ha due problemi gravi che l’opprimono. Il primo è costituito dalla frammentazione interna che non è solo di forma ma di sostanza: vi è Forza Italia alle prese con le condizioni deboli di salute di Silvio Berlusconi; vi è la destra in crescita di Lega e Fratelli d’Italia; e vi è Area Popolare che addirittura è parte integrante della maggioranza di governo.
Inoltre il centrodestra ha un collaudato problema di leadership che da un lato deriva e dall’altro determina la mancanza di unità.
Il risultato elettorale, tuttavia, dice chiaramente una cosa. Quando il centrodestra si presenta come fronte coeso e unitario diviene anche attraente elettoralmente. Quando viceversa si frammentata o opta per soluzioni conflittuali, come a Roma, apre una voragine al M5S che fa da asso pigliatutto.
Se si guardano bene le cose, ciò nondimeno, la posizione attuale di debolezza determinatasi in quest’area politica costituisce pure una condizione di vantaggio, qualora ovviamente sia ben intesa e capitalizzata. All’appuntamento referendario di ottobre il comune fronte del No, come si diceva, garantisce di poter sparare cartucce diverse contro il medesimo bersaglio, raccogliendo e coagulando contro Renzi il facile vantaggio del M5S. Alla partita futura delle politiche il centrodestra invece deve arrivare in concorrenza con i Grillini, sostenuto da una leadership unitaria richiesta comunque dall’Italicum o dalla rivista e maneggiata nuova legge elettorale.
L’unità politica, insomma, è l’obiettivo principale del centrodestra, e il modo di trovare una leadership di coalizione il mezzo indispensabile e la condizione obbligata per raggiungerla. A questo punto, d’altronde, non dovrebbe preoccupare più del giusto la poca coerenza dei programmi, perché comunque la tendenza internazionale vede andare ineluttabilmente verso una decisa radicalità delle posizioni in materia di immigrazione, Europa e sovranità nazionale. Dovrebbe preoccupare piuttosto l’urgenza di mettere in competizione tra di loro le differenti idee e i diversi aspiranti leader in una seria tornata di primarie.
Come ha spiegato bene Maurizio Gasparri, in un’intervista su Formiche.net, non esiste nessuna ragione plausibile per cui Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e Angelino Alfano non dovrebbero confrontarsi schiettamente tra di loro, facendosi dire dall’elettorato di coalizione chi deve guidare il centrodestra. La vittoria di uno, pur non essendo vincolante ovviamente per gli altri, darebbe un’indicazione sulla linea prevalente voluta dalla gente, oltre ad abituare ad una dialettica interna molto sana, che purtroppo non è ancora nelle corde del centrodestra.
Le primarie oltretutto potrebbero far emergere, fatto non scontato, nuovi personaggi, dando freschezza e motivazione all’elettorato fermo da anni nell’astensione.
Se, in definitiva, Renzi incarna un progetto di riforme europee in un programma socialdemocratico, i pentastellati lavorano su una raccolta di consenso basato su onestà e democrazia diretta, il centrodestra continua ad avere i suoi argomenti fondamentali, legati non solo alla polemica anti euro, ma ad una diversa politica dell’accoglienza, ad una visione economica di riduzione del carico fiscale e ad una ferma opposizione al reddito di cittadinanza.
L’attuale tripolarismo, in definitiva, non prepara la scomparsa di uno dei tre soggetti in pista, ma tratteggia una diversa configurazione dei rapporti di potere che comunque potrebbe avvantaggiare un centrodestra unito. Sempre che i conflitti interni e la paura di superare la fase berlusconiana non diventino il pretesto per costruire il bel sarcofago in cui seppellire la propria alternativa possibile.