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Clinton, Trump e l’Intelligence Usa. Parla Mark Mazzetti

In una conversazione con Formiche.net Mark Mazzetti, national security correspondent per il New York Times, affronta i principali temi d’interesse per la comunità intelligence Usa, soffermandosi sul ruolo della Cia e degli apparati di sicurezza nella guerra al terrore, attraverso una panoramica che parte dall’amministrazione George W Bush e arriva alla presidenza Obama.

Mazzetti è autore del libro “The way of the knife” (2013), ha vinto il Premio Pulitzer nel 2009 e il Premio Livingston nel 2008. Ha realizzato reportage giornalistici in Iraq, Pakistan e Afghanistan. I suoi articoli sulla Cia e sulla lotta al terrorismo sono annoverati tra i più autorevoli nel panorama americano e internazionale.

Mr. Mazzetti, lo scorso 1 luglio ha ricevuto l’Urbino Press Award, premio assegnato ogni anno a un giornalista statunitense di particolare valore. Come ha vissuto l’assegnazione del premio?

Sono davvero estasiato nel pensare a come un’intera città voglia rendere omaggio al mondo del giornalismo. E’ un onore per me far parte della schiera dei vincitori del Premio, che considero non solo grandi giornalisti ma dei veri e propri miti. Alcuni vincitori delle precedenti edizioni sono miei amici e questa circostanza ha reso tutto più appassionante.

Che cosa significa per un giornalista occuparsi di sicurezza nazionale e che tipo di connessioni o relazioni sono necessarie per svolgere al meglio un lavoro così delicato?

Credo che oggigiorno occuparsi di sicurezza nazionale sia più importante che mai, a causa della tendenza sempre più diffusa a tenere segreto tutto ciò che riguarda il mondo dell’intelligence e degli affari militari. C’è bisogno di giornalisti impegnati a svelare ciò che è coperto, per raccontare ai lettori cosa sta accadendo in giro per il mondo. Tale compito è particolarmente complicato poiché molti addetti ai lavori non vogliono che si parli di questi temi. Credo, allora, che sia oltremodo importante preservare relazioni con persone che si fidano di te e della tua capacità di proteggere la riservatezza delle fonti, perseguendo il solo scopo di rendere pubblico ciò che tutti hanno diritto di conoscere.

Stiamo vivendo l’era del grande conflitto tra la crescente esigenza di sicurezza e la necessità di tutelare le libertà fondamentali, com’è emerso dalla vicenda Snowden o dalla diffusione dei cablogrammi pubblicati su WikiLeaks. Ritiene che vi sia stato un qualche cambiamento sostanziale nell’approccio della comunità intelligence Usa ai temi della sorveglianza e della raccolta informativa?

Credo che alcuni cambiamenti si siano verificati a seguito della vicenda Snowden, quando la comunità intelligence Usa ha cominciato a interrogarsi sulla necessità di portare avanti una parte delle attività di sorveglianza. Da quel momento si è iniziato a pensare: “Solo perché possiamo farlo, non necessariamente dobbiamo farlo”. In alcuni casi, la capacità tecnica di svolgere attività di sorveglianza verso Paesi alleati ha trovato un contro-bilanciamento nei possibili danni causati da un eventuale disvelamento della raccolta informativa. Si è insomma capito che gli effetti negativi della sorveglianza possano essere assai più ingenti di quelli positivi.

Il suo libro The way of the knife è incentrato sul “lato oscuro” della Central Intelligence Agency e si sofferma sul cambiamento strutturale che ha riguardato il ruolo svolto nella guerra al terrore dalla Cia dopo la tragedia delle Torri Gemelle. Nella sua interpretazione tale cambio di strategia ha portato la principale agenzia d’intelligence Usa a divenire “un esercito nascosto” che svolge attività militari non convenzionali. Il nuovo ruolo assunto dall’intelligence USA può essere considerato una naturale conseguenza della lotta al terrore o vi sono altre ragioni che hanno impattato sulle scelte in materia di sicurezza nazionale da parte del governo americano?

Penso che la decisione di mettere la Cia a capo di questa “guerra nascosta” sia stata presa, in un certo senso, incidentalmente. Subito dopo gli attacchi dell’11 Settembre, la Cia si propose quale punto di riferimento e l’amministrazione Bush ritenne giusta la scelta di schierare in prima linea l’Agenzia nella guerra al terrorismo. Ciò che è accaduto quasi incidentalmente è poi divenuto ordinaria prassi nel corso dell’amministrazione Obama, che ha abbracciato e fatto proprio quanto avvenuto negli anni precedenti. Questa tendenza è iniziata per caso ed è ora realtà quotidiana.

Vi sono delle implicazioni etiche o morali riconducibili alla scelta di svolgere azioni militari oltremare attraverso il ricorso ad attacchi via drone, a contractor privati o ad altri strumenti alternativi al conflitto convenzionale?

Non credo che ricorrere a contractor o usare droni armati possa essere morale o immorale a prescindere. Credo piuttosto che la vera domanda da porsi riguardi il modo di comunicare le missioni e i relativi target. Ritengo che il punto da approfondire sia proprio relativo ai criteri con cui si debba rendere pubblico quanto avviene nei teatri operativi. Questo per me è più importante di come i droni o i contractor possano essere utilizzati. Considero le armi meno pericolose della decisione di rendere pubblico o segreto quanto sta accadendo.

Quali sono i rapporti di forza tra i vertici della Cia e il governo statunitense? Chi prende le decisioni circa obiettivi e missioni da svolgere?

Per un lungo periodo di tempo la Cia ha effettivamente avuto l’autorità di prendere decisioni in autonomia. Dal 2008 al 2010, quando si sono succeduti centinaia di attacchi con i droni soprattutto in Pakistan, il direttore della Cia si faceva carico di quanto non autorizzato direttamente dal Presidente. In quel periodo la Cia conduceva la battaglia in primissima linea. Con il passare degli anni si è affermata una più netta leadership da parte della Casa Bianca nell’autorizzare o non autorizzare il ricorso ai droni armati e il relativo ingaggio in teatro operativo.

Qual è la sua valutazione circa l’operato della comunità intelligence Usa nel corso dell’amministrazione Obama? Vi sono differenze sostanziali rispetto all’approccio assunto dall’amministrazione George W Bush?

Al di là di alcune considerazioni, non credo vi siano differenze sostanziali tra l’approccio dell’amministrazione Bush e quello dell’amministrazione Obama. La presidenza Obama si è certamente allontanata da alcune politiche adottate da Bush; mi riferisco alla chiusura di Guantanamo o alla riduzione dei bombardamenti con i droni, ma in ogni caso ritengo che vi sia una certa continuità da parte dell’amministrazione di Barack Obama. Ad esempio, all’inizio della sua presidenza vi fu una chiara affermazione di condanna verso il ricorso alla tortura o al waterboarding, ma nei fatti queste pratiche sono state messe da parte solo dopo alcuni anni. Ciò mi porta a ritenere che vi sia stata una certa continuità tra le due amministrazioni.

Vi sono prospettive di cambiamento per la comunità intelligence Usa alla luce dei programmi formulati dai candidati alla Casa Bianca?

Molto dipende da chi vincerà le presidenziali. Qualora vincesse Hillary Clinton non credo vi sarebbero cambiamenti significativi rispetto a quanto si è fatto nel corso dell’amministrazione Obama. Potrebbe esservi addirittura un’intensificazione delle attività in Siria e in Iraq contro l’Isis. E’ davvero difficile cercare di capire quale potrebbe essere la strategia di Trump qualora vincesse le elezioni. In ogni caso non credo vi possa essere spazio per una politica meno aggressiva rispetto a quanto fatto da Obama.

Cosa ci riserva il futuro? Continueremo a vivere in un mondo di ombre oppure conosceremo un’era di maggiore trasparenza nella lotta al radicalismo e al terrorismo internazionale?

Non credo che vivremo una nuova era di trasparenza per quanto riguarda il modo di condurre le prossime guerre. Ritengo che solo ora, a fine mandato, il Presidente Obama si stia sforzando di essere più trasparente e aperto sebbene ciò che sta facendo sia limitato solo ed esclusivamente alla sua amministrazione. Ciò mi porta a credere che il prossimo presidente continuerà la “guerra nell’ombra”, proprio perché – in tutta franchezza – è assai più semplice portare avanti operazioni segrete invece di rendere pubblico quanto si fa in battaglia.


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