Ho quindi considerato un errore decisivo la rottura della più ampia maggioranza che si era formata a sostegno delle riforme costituzionali e che avrebbe dovuto logicamente condividere la proposta del nuovo Presidente della Repubblica. Essa riuniva tutti i gruppi parlamentari aderenti alle grandi famiglie politiche europee e perciò rappresentava il naturale alveo legittimante la nostra azione “repubblicana”, nonostante i ricorrenti tentativi di disegnare regole elettorali in nostro danno. Siamo nati per svolgere un ruolo di cucitura democratica e non per fare da spalla a progetti divisivi. Per questa ragione, in quell’occasione, mi sono irrevocabilmente dimesso da presidente del gruppo dei senatori, funzione che non avevo peraltro né chiesto, né desiderato e che ho cercato di svolgere con attenzione alla nostra identità.
Sono convinto che mai come in questo momento le autentiche leadership debbano essere inclusive e capaci di ricomporre continuamente le società nel momento i cui sono forti le spinte alla loro disintegrazione. La coesione si produce nella crescita, che a sua volta non si genera solo dai pochi grandi interessi organizzati cui il governo ha prestato una pur necessaria ma esclusiva attenzione. La crescita italiana è sempre stata l’espressione di una diffusa attitudine a darsi da fare, di quel capitalismo popolare e familiare che si dovrebbe incoraggiare con meno tasse e meno regole. Il motore della nazione è sempre stato il ceto medio e con esso tutti coloro che aspirano a farne parte.
La stessa legge denominata “jobs act” giunse ad approvazione con uno strappo rispetto agli accordi presi per soddisfare la sinistra interna del PD. Venne infatti meno all’ultimo minuto la ipotesi convenuta di sottrarre al magistrato la decisione tra indennizzo e reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto rimessa al solo datore di lavoro. Siamo rimasti così i soli in Europa ad avere la possibilità di sopravvivenza ad ogni costo del rapporto di lavoro finché morte o pensione non separino. L’allora capogruppo Speranza dichiarò ironicamente nel giorno di vigilia “buon Natale Sacconi!”. Ero a Bologna nella città di Marco Biagi. La vicenda fu, a mio avviso, emblematica perché la legge più popolare del governo Renzi è stata in realtà sostenuta dalla spesa corrente straordinaria di 18 miliardi per agevolazioni contributive. E Marco era solito dire che nessun incentivo finanziario può sostituire il disincentivo normativo.
La coesione sociale si sostiene peraltro anche attraverso il rispetto dei principi della tradizione nazionale, a partire dalla famiglia naturale. Per questa ragione non ho condiviso la risposta ideologica della famiglia artificiale alla pur legittima domanda di diritti certi da parte delle stabili convivenze omo ed eterosessuali. Sarebbe stato così facile partire dalla ricognizione dei diritti e codificarli, realizzando quel comun denominatore che avrebbe creato il clima più idoneo alla tutela della dignità di ogni persona. I voti di fiducia su un tema così sensibile, senza peraltro un analitico esame parlamentare, fanno temere molti che domani un solo partito del 30%, portato al 55% dei seggi dal premio di maggioranza, possa con altri voti di fiducia introdurre nell’ordinamento italiano la liberalizzazione delle droghe, l’eutanasia, la banalizzazione dell’aborto ed altro ancora.
In questo contesto, le stesse riforme istituzionali sono via via diventate una clava della lotta politica. Eppure la fase “muscolare” del confronto bipolare, nata come reazione ai compromessi “molli” della prima Repubblica, si è esaurita con l’inizio della Grande Crisi e con lo sviluppo in essa del tripolarismo. Il recente voto amministrativo ha rivelato poi che la nostra democrazia si sta consegnando alle minoranze più organizzate. Esse possono godere di maggioranze casuali nella bassa partecipazione al voto ma rimangono minoranze nella società. Come governare allora le complessità di questo tempo, le inevitabili transizioni faticose, le lunghe attese di tempi migliori, senza coalizioni larghe e capaci di unire un popolo in cammino? Preoccupa, in particolare, il soffocamento di tutta l’area liberale, di maggioranza come di opposizione, nel momento in cui la radicalizzazione dello scontro ridurrà da tre a due i poli elettorali di maggiore consenso. Poco male per il ceto politico ma, con ogni probabilità, questo nuovo bipolarismo non darà rappresentanza al ceto medio e a coloro, non pochi, che credono nei principi cristiani.
Non condivido quindi una sorta di rassegnata attesa del conflitto finale dal quale uscirebbe in ogni caso perdente una nazione ancor più lacerata. E penso che toccherebbe proprio a coloro che si sono proposti nel nome della responsabilità repubblicana svolgere ancora una funzione di ricomposizione. Essa dovrebbe muovere dal governo attraverso una convincente apertura all’ascolto e alla mediazione sugli stessi quesiti referendari, sui complementi dirimenti della legge costituzionale e sui termini della nuova Europa, dal suo assetto istituzionale ai dossier dell’immigrazione e delle banche. Quindi, non solo legge elettorale.
So bene che si tratta di assumere un rischio politico e che una tale iniziativa potrebbe incontrare il rifiuto degli uni e degli altri. Anche se, in questo tornante della storia, proprio Silvio Berlusconi potrebbe essere capace di scelte generose facendo prevalere “cuore e pancia” rispetto al piccolo calcolo della immediata opportunità politica. Il confronto elettorale di Milano, l’unica metropoli italiana a dimensione europea, ha dimostrato come sia ancora possibile una competizione prevalente tra liberal-popolari e social-democratici isolando la nuova sinistra radicale a cinque stelle. Ma il tempo e’ poco e lavora a sfavore. E’ davvero l’ora delle scelte!