Con lo scorrere dei mesi e delle audizioni, è sempre più chiaro che troppe cose che abbiamo letto e ascoltato nei 38 anni successivi al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro sono false: depistaggi ripetuti e prolungati nel tempo, sciatterie investigative, versioni di comodo, un’enorme quantità di pubblicistica i cui autori, in qualche caso, potrebbero rispondere di calunnia davanti alla magistratura. Tutto ciò grazie alla commissione d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni (Pd) e prorogata fino al termine della legislatura, che ha ricominciato da capo analizzando ogni foglio, ogni elemento, ogni dettaglio con la collaborazione delle forze dell’ordine (in particolare della Polizia) e dell’intelligence. Dopo quella del dicembre scorso, la seconda relazione che la commissione pubblicherà alla fine di quest’anno ribalterà molte presunte verità. Quattro, al momento, le cose ritenute certe dai commissari: la presenza di due boss della ‘ndrangheta a via Fani nel momento del rapimento e della strage; la presenza anche di terroristi tedeschi della Raf, la Rote Armee Fraktion; una verità diversa sulla cattura di Valerio Morucci e Adriana Faranda a casa Conforto in viale Giulio Cesare a Roma, che sarebbe stata in realtà una “consegna” concordata come parte della trattativa in corso; infine, una verità diversa anche sulle modalità e sui tempi dell’uccisione dello statista democristiano.
LA PAURA DI MORO
Già nella relazione del dicembre 2015 si era fatto cenno ai timori che il presidente della Dc nutriva proprio nei giorni immediatamente precedenti al 16 marzo 1978. Su disposizione del capo della Polizia, Giuseppe Parlato, il dirigente della Digos di Roma, Domenico Spinella, il 15 marzo ebbe un incontro con Nicola Rana, uno dei più stretti collaboratori di Moro, per discutere di un servizio di vigilanza da istituire presso l’ufficio del leader dc in via Savoia. La vigilanza sarebbe cominciata il 17 marzo. Una vicenda che presenta alcune stranezze: solo l’anno scorso fu rintracciata dalla commissione una relazione di servizio di Spinella che solo 11 mesi dopo, il 22 febbraio 1979, raccontò del suo incontro con Rana e dei timori di Moro. Rana nell’audizione del 16 febbraio scorso ha dato l’impressione di voler alzare un muro di fronte alla ricerca della verità negando che lui, Moro o altri avessero mai avuto contatti con Parlato o con Spinella per quella vicenda. E solo nella successiva audizione del 22 marzo, messo di fronte alle sue stesse dichiarazioni del 1978 e del 1980, è stato costretto ad ammettere che gli incontri ci furono.
LA SPIEGAZIONE SULLO SCATTO DELLA DIGOS
La versione dell’epoca sulla protezione degli uffici, confermata da Parlato il 20 giugno 1980 davanti alla prima commissione Moro, è considerata dai commissari come una versione di comodo, ancor più incredibile se motivata da Rana anche con i frequenti furti di autoradio dalla sua vettura in via Savoia. La verità è un’altra: Moro aveva informazioni su un reale pericolo che certo non poteva riguardare le carte conservate nel suo studio, ma la sua persona. La commissione ha rintracciato l’ormai noto messaggio inviato dal centro Sismi di Beirut il 18 febbraio 1978 nel quale si segnala che una fonte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina accenna a un’ “operazione terroristica di notevole portata programmata asseritamente da terroristi europei che potrebbe coinvolgere il nostro Paese se dovesse essere definito progetto congiunto discusso nei giorni scorsi in Europa da rappresentanti organizzazioni estremiste”. Il capo del Sismi a Beirut era un uomo di Moro, il famoso colonnello Stefano Giovannone (nome in codice “Maestro”, come ricorda nelle sue memorie l’ex capo del Sismi ammiraglio Fulvio Martini), e dunque è possibile che anche nei giorni successivi a quel cablo siano arrivate a Moro altre soffiate attendibili. Moro era preoccupato da tempo. Nel suo libro di memorie “Mission: Italy”, l’allora ambasciatore americano Richard Gardner ha scritto che nell’incontro avuto con il leader dc il 5 novembre 1977 “Moro sembrava avere un oscuro presentimento sul suo destino”, si diceva convinto che il terrorismo brigatista avesse appoggi “all’Est” e che “il terrorismo tedesco e quello italiano fossero strettamente collegati”.
Secondo la commissione d’inchiesta, dunque, l’allarme del 15 marzo spiega il comportamento apparentemente anomalo di Spinella la mattina del 16. Nell’audizione del 6 aprile il poliziotto oggi in pensione Emidio Biancone, autista di Spinella, ha raccontato di essere uscito urgentemente con il capo della Digos dalla Questura parecchi minuti prima delle 9, quando la prima telefonata al 113 con la notizia di una sparatoria in via Fani è delle 9.03. La prima indicazione ricevuta da Spinella è di dirigersi genericamente verso via Trionfale e solo pochi minuti dopo, quando sono in macchina nei pressi della caserma dei Vigili del fuoco di via Genova, dalla sala operativa parlano della sparatoria e Spinella corregge l’indicazione, dicendo a Biancone di andare in via Fani.
L’interpretazione data dalla commissione, incrociando tutti questi dati, è che Spinella sia partito all’improvviso dopo aver ricevuto una specifica indicazione (dal questore? Dal capo della Polizia?) di assicurarsi che Moro non avesse problemi, proprio a seguito delle preoccupazioni espresse nelle ore precedenti, e la direzione del quartiere Trionfale coincideva con l’abitazione del leader dc e con la chiesa dove andava regolarmente. Nessuna “soffiata preventiva” sul rapimento, dunque, così come fin dall’inizio non è stata credibile la presunta rivelazione di Renzo Rossellini alle 8.30 di quel 16 marzo a Radio Città Futura sull’imminente rapimento di Moro. Rossellini, tra l’altro, era in ottimi “rapporti” con la Digos.
(1/continua; la seconda parte dell’inchiesta sarà pubblicata domani)