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Vi racconto i veri obiettivi degli attentati kamikaze islamisti

L’incremento di attacchi terroristici negli ultimi anni ha portato alcuni ricercatori che si occupano dell’argomento a cercare approcci scientifico/statistici per comprendere il fenomeno, con un occhio soprattutto alle azioni dei kamikaze, che rappresentano la percentuale più alta di attacchi (anche perché molti degli attentatori, soprattutto nei casi in cui la matrice è l’islamismo radicale, scelgono di compiere il gesto fino all’atto estremo del martirio). I più famosi studi sono quelli di Robert Pape e Michael Horowitz, che hanno usato metodi statistico-matematici, come l’inferenza, teoria dei giochi, quantificazione, analisi del capitale umano e dell’ambiente, su un’enorme mole di dati relativi ad attacchi suicidi di varia matrice.

Ne parliamo con Lorenzo Carrieri, analista che collabora con diversi centri di ricerca e con la rivista americana FairObserver, postgraduate student presso School of Advanced International Studies della John Hopkins University, specializzato in international security, nella seconda parte della sua analisi per Formiche.net (la prima al link). Semplificando, a quali conclusioni si è arrivati con questi studi tecnici? “Il dato principale, quanto ovvio, è che nel perseguire i loro interessi i terroristi impiegano una strategia volta a massimizzare l’efficacia dell’azione violenta: sono, come si dice in gergo, rational utility maximizers“. Gli obiettivi civili, facili, aperti, sono i principali e preferiti bersagli.

LA MOTIVAZIONE RELIGIOSA

Altro dato centrale: ci sono alcune di queste analisi che valutano la motivazione religiosa con un peso non assoluto. “In primo luogo, nonostante sia associata con la religione islamica e con la cultura islamica, per alcuni ricercatori la motivazione determinante pare essere più politica e secolare: obbligare le moderne democrazie a ritirare le forze militari e i propri interessi da territori che i terroristi considerano la loro patria. La religione, secondo alcuni autori, viene usata in maniera strumentale per favorire il reclutamento e per veicolare un immaginario: tutto per raggiungere un obiettivo finale più ampio”. Secondo altre interpretazioni, per certi aspetti collegabili, la lotta jihadista istituita dal Califfato tende a minare le possibilità di secolarizzazione delle culture islamiche, e in questo, eliminare gli interessi (di qualsiasi genere, siano economici che geopolitici) degli stati occidentali presenti all’interno di determinati territori a maggioranza musulmane, può avere il doppio valore politico e religioso.

L’INNOVAZIONE MILITARE E L’ADOZIONE DEL TERRORISMO SUICIDA

Un altro aspetto riguarda il tipo di attacco. “L’uso innovativo degli esplosivi e dei differenti modi di reclutamento, così come i cambiamenti nella pianificazione, nella formazione e nella condotta degli attacchi, fanno di queste azioni suicide una rivoluzione nell’arte della guerra”, una tattica potente ed efficace con cui il nemico, ossia le forze di sicurezza dei paesi colpiti, devono fare i conti con difficoltà. “Secondo Horowitz e la sua Adoption-capacity-theory infatti, un gruppo che sceglie di adottare il terrorismo suicida affronta soprattutto organizational constraints in termini di capitale umano, aggiustamenti strutturali, livello di divisione del lavoro, investimenti in ricerca e sviluppo, elaborazione strategica, specifiche procedure di reclutamento e addestramento. Al contrario di Horowitz, due studiosi italiani sostengono che la probabilità di adozione del terrorismo suicida da parte di un gruppo non è determinata dal capitale umano bensì da considerazioni tattiche: tanto maggiore la superiorità tecnologica del nemico in termini di capacità convenzionali, tanto maggiore sarà la propensione ad utilizzare attacchi suicidi”. L’attacco kamikaze è utilizzato sia per sfondare le linee nemiche durante il lancio di un’offensiva, come più volte visto fare in Siria, in Iraq o anche in Libia, sia per arrecare il massimo numero di perdite possibile in situazioni indirette; gli attacchi ai mercati, ai ristoranti, alle manifestazioni, agli aeroporti.

LA SPETTACOLARIZZAZIONE DELL’ATTACCO

L’azione del terrorista suicida cambia comunque il quadro di guerra, è un soggetto non facilmente identificabile, che è quasi impossibile bloccare, ma che ha una forza narrativa enorme. “L’efficacia dell’azione è scioccante e mostruosa allo stesso tempo. Non c’è deterrenza possibile verso coloro che hanno deciso di sacrificare la propria vita in un attacco suicida e la spettacolarizzazione dello stesso da parte dei media è fondamentale per raggiungere obiettivi realistici. Pensiamo infatti a gruppi come Hamas che, mentre propugnavano obiettivi non realistici come la distruzione dello Stato d’Israele, attraverso l’uso sistematico del terrorismo suicida hanno ottenuto obiettivi intermedi, come il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza. La stessa strategia, alla luce dei dati raccolti dai due autori, è risultata vincente in altri casi, per esempio Hezbollah o le Tigri Tamil”.

LA PSICOLOGIA DELL’EMULAZIONE

Ci sono studi di psicologia che dimostrano come la diffusione di un messaggio violento sia la radice per la sua riproduzione, dallo storico esperimento sui bambini del professore di psicologia di Stanford Albert Bandura, ai lavori più recenti sull’effetto di alcuni tipi di videogiochi particolarmente cruenti sul comportamento aggressivo degli utenti. Alcuni psicologi pensano che in questa fase storica si sia creato uno scenario perfetto per incanalare la follia personale. L’approccio clinico dice che una persona non può sviluppare qualsiasi patologia, ma ognuno ha solo un range di possibilità. Ad esempio, un ansioso non diventa narcisista, può avere però un attacco di panico: il rischio, adesso, è che con il risalto della grande esposizione mediatica data a questi gesti, e della martellante narrativa violenta che lo Stato islamico ci ha costruito intorno, si sia inserita nel range patologico del depresso-aspirante-suicida anche l’azione stragista. Un esempio, i fatti di Monaco di poche settimane fa. È un periodo storico che incentiva disturbi psichici di questo genere, a cui si aggiunge una predicazione continua, facilmente accessibile, la quale attecchisce continuamente su un substrato psicologico personale già non troppo stabile, che si somma a un aspetto sociologico del contesto religioso e culturale di background. Il Der Spiegel ha raccontato che gli attentatori che a luglio hanno colpito le città tedesche di Ansbach e Wurzburg avevano cercato contatti con lo Stato islamico prima di compiere il gesto, e avevano trovato un riferimento in chat: un saudita collegato all’IS. Contatti che fanno da fluidificante per le instabilità psicologiche.

LA DISARTICOLAZIONE DELLE SOCIETA’ COLPITE

“È dimostrato che il susseguirsi di tutti questi attacchi terroristici – spiega Carrieri – tende a disarticolare le società colpite: per esempio instillando paura e ansia”: l’Egitto, un paese martoriato dal terrorismo jihadista della Provincia del Sinai dello Stato islamico, ha subito un drastico calo dell’afflusso turistico, e lo stesso dicasi della Turchia. Inoltre questa paura e ansia si moltiplica “inserendosi nel dibattito politico, da dove fornisce alimentazione ai populismi, quelli di alcuni partiti dei Paesi europei, per esempio, dando fiato a narrative di Noi contro di Loro e agli spesso tirati in ballo Scontri di civiltà“. Una delle conseguenze inattese della Guerra al Terrore è la diffusione dei cosiddetti “Lupi Solitari“, altro elemento di destabilizzazione: “Questa nuova forma è molto differente dal terrorismo su scala organizzata. Col termine tecnico Lone Wolfs o anche Stray Dogs, infatti si intendono individui cresciuti in comunità scarsamente integrate di musulmani nelle tetre periferie delle megalopoli occidentali, il cui orizzonte economico e sociale è molto limitato. Questi nuovi terroristi sono proprio quelle persone alienate dalle tradizionali strutture di potere e dalla società in generale, spesso rifiutano l’integrazione delle seconde generazioni cercando un ritorno alle origini, che trovano invece abbracciando l’Islam radicale propagandato dall’IS, il quale, grazie a sofisticate campagne di reclutamento sui social media intrise di espressioni religiose estremiste, è distante soltanto un click”. “Questi individui auto-reclutatisi sono poco o per nulla finanziati da organizzazioni più grandi e le loro tattiche consistono principalmente in attacchi a bassa tecnologia su soft target”. I bersagli sono generalmente obiettivi poco difesi o dove la sicurezza totale diventa un problema complesso – esempio: un ristorante all’aperto in estate. Colpendoli possono arrivare alla massimizzazione dell’azione di cui si parlava, arrecando danni diretti e indiretti, come l’instillare nelle società bersagliate l’insicurezza e terrore: nei giorni scorsi è girata molto online una foto scattata sulle spiagge francesi di Saint Tropez, in cui in primo piano c’è una bambina che gioca con la sabbia e sullo sfondo tre militari armati schierati nell’ambito dell’operazione Sentinel con cui il governo di Parigi intende difendere proprio i soft target come gli stabilimenti balneari.

Un reportage del New York Times, ha spiegato che comunque anche in alcuni casi in cui l’azione jihadista prende una via personale, esistono elementi che fanno da collegamento, i quali si occupano di fornire istruzioni tecniche e fare propaganda ideologica ai futuri attentatori.

(Foto: Wikipedia)


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