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Tutti i tormenti di Stefano Parisi tra Forza Italia, referendum e assemblea costituente

stefano parisi

Per quanto relegate nelle pagine interne dei giornali per la prevalenza giustamente data alle guerre di Aleppo e Sirte, le cronache politiche non sono state un successo per il progetto di Stefano Parisi alternativo alla riforma costituzionale sotto procedura referendaria.

Parisi, come si sa, ha cercato di dare una prospettiva positiva al no di quel che resta della vecchia area di centrodestra alla riforma di Matteo Renzi proponendo la sostituzione del Senato, alle prossime elezioni, con un’Assemblea Costituente: tipo quella del 1946, da eleggere anch’essa naturalmente con un sistema rigorosamente proporzionale.

L’idea, in verità, non è nuova. E neppure cattiva, sul piano teorico. Essa appartiene peraltro alla cultura politica socialista, particolarmente a quella degli anni di Bettino Craxi, che lanciò il tema della “Grande Riforma” scontrandosi col conservatorismo istituzionale dell’allora Pci e con lo scetticismo, a dir poco, dei democristiani.  Ma Parisi, proveniente proprio dalla cultura e anche da una militanza socialista, ha riproposto la sua “alternativa” in una lettera a Repubblica in tempi e con prospettive che gli hanno creato il vuoto attorno. Tempi e prospettive obiettivamente irrealistiche, che hanno aiutato sia il Pd, sia la sinistra esterna, sia la destra a dire no. Ma quello della destra è stato particolarmente dannoso per Parisi perché, anziché accorciare le distanze, per esempio, fra la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia, le ha aumentate: l’opposto della generica missione affidatagli da Silvio Berlusconi di ricongiungere o federare le sue vecchie coalizioni.

Piuttosto che insistere con la proposta dell’Assemblea Costituente, Parisi è stato richiamato dai leghisti, e questa volta anche dai Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e Ignazio La Russa, al dovere di dire chiaramente che cosa intendere fare con e di Matteo Renzi dopo il referendum di fine novembre, se la riforma che ne porta ormai il nome risulterà bocciata. Un altro governo Renzi, di cui costoro non vogliono sentire neppure parlare, ma che sospettano sia nei reconditi pensieri di Parisi e dello stesso Berlusconi, o che cosa?

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A compromettere o complicare l’alternativa proposta da Parisi, vi lascio immaginare con quale soddisfazione per i suoi critici all’interno di Forza Italia, da Renato Brunetta ad Altero Matteoli, è stato l’azzardo davvero ottimistico con cui egli ha scritto a Repubblica di considerare realizzabile l’elezione di un’Assemblea Costituente già nella primavera dell’anno prossimo, approvando in pochissimi mesi una leggina costituzionale di “due o tre articoli”. Che, come tutte le leggi di modifica della Costituzione, ha una procedura parlamentare doppia, sia alla Camera sia al Senato, e comporta la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera per evitare la verifica referendaria proponibile da un quinto del Parlamento.

Già difficile da realizzare nei diciotto mesi scarsi che mancheranno alla conclusione ordinaria di questa legislatura dopo il referendum di fine novembre sulla riforma di Renzi, la prospettiva lanciata da Parisi di un’Assemblea Costituente allestibile in soli sei o sette mesi è apparsa in tutta la sua evidenza tattica e propagandistica: più un diversivo, o una bandiera che altro.

Si vedrà ora se il mancato sindaco di Milano vorrà o potrà correggere il tiro e recuperare qualcuno dei no ricevuti sinora nel poco più di un mese che ormai lo separa dalla Conferenza programmatica da lui stesso annunciata per cercare di delineare contenuti e confini di quell’”area dei moderati” che si è proposto di rappresentare.

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Di problemi, sul versante del sì referendario alla sua riforma costituzionale, ne ha naturalmente anche il presidente del Consiglio e segretario del Pd, anche se i comitati per la conferma sono più numerosi di quelli per il no e, soprattutto, dispongono di un finanziamento pubblico di mezzo milione di euro che gli altri non sono riusciti a procurarsi per avere fallito la loro raccolta di firme, rimaste molto al di sotto delle 500 mila necessarie, e convalidate dalla Cassazione.

Sinora Matteo Renzi ha potuto contare, sul piano politico, solo sulla grande firma e voce, diciamo così, del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. Al quale si richiama ogni volta che può per intestargli la riforma, ricordando l’impulso datole col discorso di reinvestitura pronunciato a Montecitorio dopo la rielezione, nel 2013.

Potrebbe giovare a Renzi anche il silenzio del presidente della Repubblica in carica, Sergio Mattarella, che ha fatto trapelare abbastanza chiaramente le sue preoccupazioni per una eventuale bocciatura della riforma, sino a impiegare il suo potere o compito di persuasione perché prima del referendum ora previsto per la fine di novembre almeno una delle due Camera approvi e metta un po’ in zona di sicurezza l’inderogabile legge di stabilità, ex finanziaria.

Ma Renzi ha bisogno di qualche sì scritto bene da grandi firme. Ha già ottenuto, in verità, quello non scontato del suo predecessore a Palazzo Chigi, Enrico Letta: non scontato per le non felici circostanze e modalità con le quali  i due si sono alternati alla guida del governo. Ma forse, proprio per averlo allontanato in quel modo dal vertice governativo, Renzi non attribuisce al suo collega di partito la capacità di spostare molti voti dal temuto no al sì. Gli potrebbe essere più utile un aiuto di Romano Prodi, di cui tesse non a caso gli elogi da qualche settimana a questa parte, sino a fargli in pubblico gli auguri di compleanno e a rimproverare al solito Massimo D’Alema e all’altrettanto solito Fausto Bertinotti di averne fatto cadere anzitempo i governi. Per non parlare naturalmente dalla mancata elezione di Prodi al Quirinale, cui contribuì, in verità, anche Renzi. Che, pur non essendo parlamentare ma ancora sindaco di Firenze, reagì alla prima e unica votazione negativa a Montecitorio su Prodi, successiva a quelle infruttuose svoltesi sull’allora presidente del Pd Franco Marini, reclamando che si cambiasse candidato. E fu fatto, rieleggendo Napolitano.


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