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Perché Giuliano Poletti sbaglia su solidarietà e crescita

Giuliano Poletti

Talora ci sono parole rivelatrici. Alcune affermazioni del ministro del lavoro, Giuliano Poletti, hanno il pregio di sintetizzare concetti su cui vale la pena riflettere. Egli ha detto (al Corriere della Sera): “Contrapporre politiche sociali e politiche per la crescita è un errore. Le politiche sociali e per l’equità sono infatti necessarie per la crescita perché, oltre a sostenere la domanda, migliorano il clima sociale generando aspettative positive”. Tre considerazioni.

1. Crescita e socialità non sono in contraddizione, ovviamente. Semmai sono la decrescita, il declino, la recessione a essere poco in armonia con la socialità. Ma qui si tratta di stabilire dove indirizzare la spesa pubblica, quindi la contraddizione esiste. Eccome. Se l’obiettivo della spesa pubblica è soccorrere chi si trova (o si suppone sia, meglio non dimenticare mai gli effetti distorsivi dell’evasione fiscale e dell’economia nera) in difficoltà, senza chiedere contropartite, è evidente che quella spesa non genererà né ricchezza né produzione, sicché sarà finanziata con la pressione fiscale presente o con quella futura (debito). Ci potrebbe anche stare, ma se hai già troppi debiti e troppa pressione fiscale non è saggio perseverare su quella strada. E il bisognoso? Appunto: di che ha bisogno? Ci sono i colpiti dalla sventura: li si aiuta e basta. Ci sono quelli senza reddito: non gli fai un regalo, non gli dai una sovvenzione, cerchi di fare il modo che lavorino. Da noi lavora il 57% degli abili, in Germania il 75. Questa pazzesca inversione delle cifre non è figlia delle disgrazie, ma di politiche disgraziate. Se si vuole riparare deve essere più conveniente investire e creare lavoro produttivo. Quindi la contraddizione c’è. Volendo continuare ad avere le uova e il brodo di gallina si finisce dove siamo: gallina sbraciolata, brodo insipido, niente più uova. Meglio scegliere.

2. Ma no, dice Poletti, perché gli aiuti sostengono la domanda, la domanda sostiene il mercato, il mercato la produzione e la produzione genera sia occupazione che gettito fiscale. Che bello! Perché non funziona così? Perché sostenere la domanda senza sostenere la produttività, quindi l’accumulazione di capitale e gli investimenti, equivale a redistribuire l’impoverimento. Che genera miseria, non ricchezza. L’idea di creare lavori improduttivi, o sovvenzioni ai non occupati, ha un senso (che a me non piace) in un sistema di piena occupazione: taluni, pochi, restano a spasso, sicché ti chiedi come puoi evitarlo, così li metti a carezzare i cavalli. Ma in un sistema ad alta disoccupazione sprecare soldi in quel che non è produttivo significa rassegnarsi al deperimento. Il finanziamento, del resto, in quella condizione, non può che essere a debito. Una scelta passata di cui paghiamo le amare conseguenze, non un inedito programma per il futuro.

3. Ma no, ribatte Poletti: si creano aspettative positive. Dice? Credo si alimenti l’aspettativa di potere continuare a consumare quel che non si è prodotto. Che, fuori dai miracoli e dalle favole, è una sicura ricetta per finire male.
Sarebbe bello (forse), se il mondo di Poletti avesse un fondamento. Purtroppo ha solo uno sfondamento: del deficit e del debito. Per giunta in cambio di beni non commestibili: i voti.


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