Ed io avevo scomodato Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer e Aldo Moro e le loro svolte, vere o presunte, tra Salerno e Benevento, per chiedermi, sia pure con una certa circospezione, se Beppe Grillo non ne avesse appena fatta anche lui una a Nettuno la sera del 7 settembre. Quando dal palco di una festa che doveva celebrare la fine di un giro d’Italia in motocicletta del Che Guevara de’ Noantri, Alessandro Di Battista, contro la riforma costituzionale di Matteo Renzi, il fondatore del Movimento 5 Stelle aveva in qualche modo avallato la decisione della “sua” sindaca di Roma, Virginia Raggi, di tenersi stretta l’assessora all’Ambiente Paola Muraro, benché indagata e reticente, a dir poco, avendolo più volte negato con giri equivoci di parole.
Togliatti, Berlinguer e Moro possono riposare in pace, pur se infastiditi da alcuni eredi politici che andrebbero diseredati. Grillo non ne insidia le svolte. Fa solo, sul piano politico, spettacolo continuo. Come Adriano Sofri e compagni facevano ai loro tempi giovanili lotta continua, di piazza e di carta, incorrendo ogni tanto in qualche incidente di percorso.
Ingoiato il rospo della Muraro, difesa dalla Raggi con le spalle orgogliosamente “larghe” dalla pretesa dei compagni di partito e di qualche giornale di sostituirsi ai pubblici ministeri o, peggio ancora, di incitarli alle decisioni più sfavorevoli verso l’indagato di turno, Grillo si è rifatto in poche ore con l’assessore al bilancio non ancora insediato: l’ex Procuratore Generale della Corte dei Conti del Lazio, Angelo Raffaele De Dominicis. Con il quale le spalle della Raggi si sono politicamente fatte da larghe a curve, avendolo la sindaca rimosso per mancanza dei “requisiti” etici del movimento pentastellato. Fra i quali continua ad esserci evidentemente l’assenza di indagini, in cui invece De Dominicis si trova sottoposto per abuso d’ufficio, non avendo impugnato a suo tempo una sentenza sfavorevole alla Corte dei Conti. E meno male che si tratta di abuso d’ufficio e non di molestie, come riferivano le prime voci fra i grillini.
Adesso quindi abbiamo nel Campidoglio targato 5 Stelle un’assessora ferma al suo posto benché indagata per reati ambientali, e per i suoi trascorsi rapporti con l’azienda comunale dei rifiuti ora sottoposta alla sua competenza, e un assessore rimosso perché indagato per un reato minore. Che una volta l’ex sindaco del Pd Pier Luigi Bersani paragonò non a torto al sovraccarico contestato all’autista di un camion.
Il povero De Dominicis, rappresentato al telefono dalla moglie, in uno scenario da commedia del grande Eduardo De Filippo, si sente vittima di un “complotto”, ne indica fra i responsabili i suoi ex colleghi magistrati e maledice il giorno in cui con un eccesso di trasparenza – per usare una parola che va molto di moda fra i grillini, ma più come parola, appunto, che come comportamento – dichiarò ad un giornalista del Corriere della Sera di essersi sentito proporre la nomina ad assessore, per conto della sindaca, da un amico avvocato. Che è poi lo stesso avvocato con la quale la Raggi a suo tempo lavorò, fratello di un altro che ebbe la sventura di difendere in giudizio l’ex ministro berlusconiano Cesare Previti, condannato in via definitiva per corruzione giudiziaria. Lo stesso Previti nel cui studio la Raggi aveva fatto il suo primo tirocinio. Tutta roba, questa, naturalmente indigesta per il pubblico pentastellato, insorto a chiedere la rimozione dell’assessore, ottenuta ora per altre vie. E così sono serviti anche gli avvocati sgraditi.
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A questo punto vi rivolgo alcune domandine facili facili: può un partito fatto di questi militanti e di questi vertici governare un Paese, come vorrebbe, non importa se mandando a Palazzo Chigi Luigi Di Maio o Alessandro Di Battista, detto “Dibba” dai suoi ammiratori per non perdere tempo a pronunciarne il nome per intero? Può amministrare una città complessa e disastrata come Roma? Può amministrare anche soltanto un borgo o un condominio?
Le cronache assicurano che in questo clima la Raggi, per farsi tornare le spalle politicamente larghe, da curve che, sempre politicamente, si erano fatte col caso di De Dominicis, comunque scampato come assessore al Bilancio a chissà quali e quanti guai, ha maturato la irrevocabile decisione di dire no alle Olimpiadi del 2024 a Roma.
Francamente, anch’io ho nutrito spesso dubbi sulla opportunità dei giochi olimpici nella Capitale d’Italia, sia pure fra otto anni, durante i quali dubito che si possano sanare tutti i punti di crisi di questa città. Sono stato trattenuto dallo sposare il no più per la paura di trovarmi d’accordo con Mario Monti che per altro. Ma il no della Raggi lo rifiuto per le sue motivazioni. Che non sono quelle delle condizioni in cui si trova e continuerà forse a trovarsi Roma, specie dopo l’esperienza pentastellata in Campidoglio. Il no della Raggi e dei compagni è soltanto una sfida ai cosiddetti poteri forti, che starebbero complottando contro di lei, e il suo partito, proprio per fare le Olimpiadi a Roma nel 2024, come se bastassero e avanzassero questi poteri, peraltro, per garantire il successo di una candidatura che non è l’unica sul tappeto a livello mondiale.
Non so se sia vera quella “pazza” attribuita da qualche giornale a Grillo nei riguardi della Raggi. Ma stento a scegliere fra i due chi sia più pazzo, sempre politicamente parlando.
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Anche se vi sembrerò ossessionato, per tutte le occasioni in cui me ne sono occupato, di fronte a ciò che accade in Campidoglio e dintorni non riesco a capire l’aria indignata con cui ne parla davanti alle telecamere il capogruppo forzista della Camera Renato Brunetta. Che pure nella campagna elettorale, fra il primo e il secondo turno delle votazioni romane, era fra colleghi di partito e di area tentati, a dir poco, dalla disobbedienza all’astensione ordinata da Berlusconi. La loro preferenza per la Raggi era sin troppo sfacciata, pur di veder perdere l’antagonista renziano Roberto Giachetti.