Lontano dalle cattedrali, dalle messe cantate e dagli aspersori del giornalismo-mainstream italiano, restano da qualche parte isole di giornalismo d’eccellenza, dove un accurato e affilato lavoro d’inchiesta s’incontra con la capacità di restituire – come in un affresco – atmosfere e ambienti.
In una di queste “isole” abita Gigi Moncalvo, già autore di controstorie-bestseller sulla famiglia Agnelli, che stavolta si dedica a una biografia ragionata di Carlo Caracciolo, autentico principe (di nome e di fatto) dell’editoria italiana. Moncalvo ha mano felice nel dosare la doverosa pietas verso una figura scomparsa, un vero e non formale rispetto per le sue realizzazioni nel mondo editoriale, ma anche un rigoroso e inflessibile racconto giornalistico.
Il libro può così essere letto su due piani. Il primo è quello dell’inchiesta vera e propria, che riordina e rimette in fila, con dettagli inediti e una sequenza logica e cronologica da thriller, una vicenda esplosa anni fa, con echi di stampa e polemiche che tanti ben ricorderanno. Moncalvo ricostruisce tappa per tappa il confronto (legale, ma anche di stile) tra Giacaranda Falck Caracciolo da un lato e Carlo Revelli Caracciolo (e sua sorella Margherita) dall’altro. Tutto nasce, come si sa, dalle molteplici e complicate vicende familiari e affettive del principe Caracciolo, che, in tarda età e poco prima di morire, lo portano (proprio mentre decide di sposare Violante Visconti) a riconoscere Giacaranda come sua figlia adottiva, anche – nella ricostruzione di Moncalvo – a seguito delle incessanti pressioni della madre, Anna Cataldi, ex moglie di Giorgio Falck, la quale sostiene da sempre che in realtà Caracciolo sia il padre naturale di Giacaranda. Contestualmente, emergono però altri due figli di Caracciolo, Carlo e Margherita, frutto di un’altra relazione di Caracciolo (con Maria Luisa Revelli). Caracciolo – racconta Moncalvo – si decide a riconoscerli, ma non fa in tempo a perfezionare l’iter. Si crea dunque una situazione per cui due figli naturali restano estromessi dal colossale asse ereditario, con beneficio oggettivo dell’erede universale Giacaranda.
Moncalvo, in una sequenza che lascia senza fiato, racconta l’apparire sulla scena, nelle ultime dolorose ore di vita di Caracciolo, del medico francese Tarot (sostenitore dell’eutanasia, e “facilitatore”, in passato, secondo alcune versioni, del trapasso di Francois Mitterrand). Poi la cremazione (velocissima e segreta) della salma di Caracciolo. Il misterioso diniego della camera ardente, pur offerta dal sindaco Alemanno in Campidoglio. Il testamento aperto a tempo di record, ad appena quattro giorni dalla morte e a due dal funerale. E addirittura, a Capalbio, la cremazione collettiva di altre salme della famiglia Caracciolo, con la conseguenza oggettiva di rendere più difficili future ricerche sul Dna.
Contestualmente, parte una campagna mediatica di amici e sostenitori della signora Giacaranda tutta rivolta contro i giovani Carlo e Margherita, i quali tuttavia, dopo mille peripezie, grazie alla decisiva disponibilità di altre figure (Margherita Agnelli e Margherita Caracciolo Chia, che consentono di prelevare un campione del proprio Dna), riescono inequivocabilmente a dimostrare di essere figli naturali di Carlo Caracciolo, e giungono così a un faticoso compromesso legale con Giacaranda.
Fine della storia? Forse no, spiega Moncalvo. Resta la domanda più complicata: Giacaranda, allora, è figlia naturale di Carlo Caracciolo? Sì o no? Se lo fosse, l’atto di riconoscimento come figlia adottiva sarebbe giuridicamente nullo (e tuttora impugnabile!), perché la legge italiana vieta l’adozione di un figlio naturale. È evidente che, se mai si realizzasse un’eventualità del genere, tutto l’asse ereditario tornerebbe in discussione, con potenziali ripercussioni – chissà – perfino sul recente accordo tra Stampa e Repubblica.
A questo primo piano di lettura (la grande inchiesta) appartengono anche novità consistenti relative al patrimonio della famiglia Agnelli. In fondo, anche in questo caso, come in quello di Carlo Caracciolo, la morte del pater familias da un lato apre conflitti devastanti sull’eredità, e dall’altro accende i fari su parti del patrimonio e asset risultati meno note e visibili – diciamo così – oppure – si suppone – dislocati per varie ragioni fuori dai confini italiani.
Se possibile, il secondo piano di lettura è ancora più interessante dell’inchiesta vera e propria. Accanto al rosario dei fatti, e ben al di là dei protagonisti diretti della vicenda, Moncalvo realizza un vero e proprio affresco umano, mette il dito nelle contraddizioni, nelle incoerenze, nelle ipocrisie. Siamo dinanzi a una classe dirigente (editoriale e imprenditoriale) che ha impartito per decenni lezioni di etica pubblica da pulpiti fatto di famiglie plurime, intrighi sulle eredità, giochi opachi di relazioni, censure e colpi bassi. E – ciononostante – rivendicando una doppia “cattedra”: di moralità e di eleganza.
Le pagine che Moncalvo dedica alle feste, ai party, ai ricevimenti dell’Italia di questi anni sono da incorniciare: per quello che raccontano, per il passaggio dal “male” al “peggio”, dalla tradizionale arroganza da vecchio jet-set a un “poveraccismo” da Cafonal di Dagospia. Eppure, troverete in quelle pagine personaggi che hanno dominato la scena editoriale, finanziaria, bancaria italiana. Li ritroverete anche nei necrologi (anch’essi mirabilmente spulciati da Moncalvo), tra calcolatissime omissioni e inclusioni dei familiari a cui fare (o a cui non fare) le condoglianze. E li ritroverete stentorei nelle loro dichiarazioni a mezzo stampa, e poi – però – decisamente più cauti nelle dichiarazioni in tribunale sotto giuramento.
Insieme all’ammirazione per il lavoro di Moncalvo (se ne può condividere o no questo o quell’elemento, questo o quel dettaglio, ma siamo dinanzi a un enorme reportage), resta lo spazio per una considerazione amara su certo giornalismo italiano. Moncalvo scrive efficacemente di un giornalismo da “circolo del tennis”, che vive di relazioni, che “scrive quello che non sa” ma soprattutto “non scrive quello che sa”. Ricordiamoci di queste pagine la prossima volta che sentiremo alcuni soloni parlare di “giornalismo indipendente” in Italia.
E francamente, a ben vedere, fanno perfino tenerezza i protagonisti della “casta politica”: tante volte effettivamente miseri e impresentabili, ma tutto sommato scolaretti ingenui rispetto a questa élite editoriale e finanziaria, vera “supercasta” intoccabile da decenni.