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Vi racconto l’infinita partita a scacchi fra Salvini e Berlusconi (che sgambetta Parisi)

Daniela Santanchè e Matteo Salvini

Un’altra lunga giornata è trascorsa inutilmente dalle parti del segretario leghista Matteo Salvini. Che, candidatosi spavaldamente nella piazza fiorentina di Santa Croce alla guida di un nuovo centrodestra italiano per seguire le orme di Donald Trump, vincitore della corsa alla Casa Bianca americana, ne ha atteso invano un “contatto”, diretto o indiretto che fosse. Un contatto, magari, soltanto telefonico: di quelli che ti allungano la vita, come nella pubblicità.

Corre voce negli ambienti parlamentari che dietro le quinte stia muovendosi a favore di Salvini, per rimediargli un “contatto” di qualche utilità propagandistica, la generosa deputata forzista Daniela Santanchè, notata sabato in piazza a Firenze.

“La Santa”, come la stessa Santanchè si è chiamata nel suo recente libro autobiografico, ha avuto la fortuna negli anni scorsi di conoscere e incontrare Trump almeno due volte a Milano, che evidentemente non è la sola località per la quale il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti conosce l’Italia: questo paese a forma curiosa di stivale che si allunga nel Mediterraneo, e dove vivono e lavorano, secondo dati risalenti a tre anni fa, almeno 13 mila militari americani distribuiti fra 59 basi e altre installazioni.

Evidentemente, solo quel supponente di Carlo De Benedetti, almeno agli occhi dell’americano ora più celebre del mondo, poteva permettersi il lusso di sfottere Trump in televisione, ospite di Lilli Gruber la settimana scorsa a la 7 , attribuendogli una conoscenza dell’Italia limitata a qualche cartolina della celeberrima isola di Capri. E preferendogli sul piano della solidità economica, finanziaria e politica il pur odiatissimo –dall’editore di RepubblicaSilvio Berlusconi da Arcore, provincia di Monza, entrato nella politica italiana con un certo ritardo, ma in tempo per vincere in poco più di vent’anni un bel po’ di elezioni e di nemici, e accumulare tante fortune da potersi permettere di pagare proprio a lui, l’ingegnere, senza battere ciglio, o quasi, qualcosa come mezzo miliardo di euro per un affare editoriale consumatosi fra corsi e ricorsi giudiziari.

A Berlusconi, per quanto decaduto nel frattempo da senatore e abbandonato negli ultimi tempi da un bel po’ di milioni di elettori e varie decine di parlamentari, De Benedetti ha riconosciuto il merito, anzi il coraggio di avere affrontato la politica non insinuandosi in un partito di altri, come avrebbe fatto Obama con quello repubblicano negli Stati Uniti, ma creandosene uno tutto suo e sottoponendolo in modo trasparente agli elettori.

Se l’editore si fosse deciso ad ammettere prima queste cose, avrebbe forse risparmiato alla sua Repubblica di carta l’antipatica abitudine di liquidare proprio quel partito “tutto suo”, di Berlusconi, come qualcosa di “plastica”, più finto che reale. Ma, come dice un vecchio proverbio, meglio tardi che mai, anche se questa volta il tardi è proprio tardi: tanto che i rapporti elettorali tra Forza Italia e il vecchio alleato leghista, ad eccezione di qualche posto come Milano, sono quasi di uno a uno. E si deve a queste distanze accorciate, anzi accorciatissime, l’ambizione non più nascosta di Salvini di pensionare davvero l’ottantenne Berlusconi.

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Non è la prima volta, in verità, nel loro più che ventennale rapporto di alleanza, che Berlusconi e la Lega stanno insieme più per sgambettarsi che per collaborare. Già nel 1994, pochi mesi dopo la vittoria elettorale sulla “gioiosa macchina da guerra” allestita dall’allora segretario del Pds-ex Pci Achille Occhetto, Berlusconi e l’allora leader del Carroccio Umberto Bossi litigarono sui rapporti con la Procura di Milano. Berlusconi dovette rinunciare ad un decreto legge già firmato dall’allora pur diffidente presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che limitava il ricorso alle manette durante le indagini preliminari, per una protesta corale dei pubblici ministeri ambrosiani. Con i quali il ministro leghista dell’Interno si scusò dicendo di non avere letto e capito bene gli articoli sottoscritti, a dispetto della sua professione di avvocato.

Cucito con la resa quello strappo, Berlusconi dovette affrontarne poi un altro sulla preparazione di una riforma delle pensioni che Bossi ritenne troppo onerosa per il suo elettorato, per cui si mise di traverso, sino a ritirare la fiducia al governo e a ordinare ai suoi ministri di uscirne. Maroni, sempre lui, che non ne era molto convinto, rischiò l’espulsione.

In un clima peggiorato per l’allora Cavaliere anche dalla notifica a mezzo stampa di un avviso a comparire per corruzione si consumò quindi una vera e propria crisi. Ma più che la controversia sulla riforma delle pensioni, per limitare già allora il ricorso costosissimo a quelle anticipate, giocò sulla rottura una cosa che mi confidò allora Gianfranco Miglio, l’ideologo del Carroccio: il tentativo compiuto dietro le quinte da Berlusconi, di fronte alle crescenti insofferenze dell’alleato, di fare proseliti fra i parlamentari leghisti, cioè di promuoverne il passaggio a Forza Italia. Fu questo che mandò su tutte le furie Bossi, peraltro incoraggiato a rompere dall’allora presidente della Repubblica con la promessa di non mandarlo subito a rovinose elezioni anticipate.

Dopo qualche anno, pur essendosi promessi a vicenda di non prendere mai più insieme neppure un caffè, come andava dicendo in particolare Gianfranco Fini riferendo le confidenze dell’allora Cavaliere, Berlusconi e Bossi si rimisero insieme. Ma il primo impegno preso da Berlusconi, e rispettato, fu di non tentare mai più reclutamenti di truppe leghiste.

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Ora la situazione è cambiata, anzi cambiatissima. Non solo Bossi non è più il capo della Lega. Non solo Berlusconi si trova con milioni di voti e parecchi parlamentari in meno. Non solo Salvini sopravvaluta i voti che ha recuperato rispetto a quelli lasciatigli da Bossi tra incresciosi incidenti di natura giudiziaria, nei quali l’ex capo del Carroccio ha avvertito lo zampino anche dei soliti servizi segreti. Non solo quel diavolo di Trump si è messo a soffiare da oltre Atlantico venti sulle vele dei partiti più contestatori d’Europa, ma la Lega attrae sempre più parlamentari forzisti. Per ora Salvini se li porta sui palchi dei comizi a spartito leghista e fra il pubblico raccolto nelle piazze con la bandiere del Carroccio e degli Stati Uniti insieme, con Berlusconi che immagino con le mani davanti agli occhi, ma all’occorrenza egli pensa di poterli proprio arruolare nei suoi gruppi parlamentari e poi nelle liste elettorali.

Questo pericolo – mi dicono a Montecitorio – è tanto avvertito da quel furbacchione di Renato Brunetta, che questi sogna di prevenirlo unificando i gruppi, anche a costo di rinunciare a presiederli, visto che i suoi rapporti con molti forzisti si sono fatti assai difficili. Ma Berlusconi, tanto per non smentire la sua imprevedibilità, ha pensato nelle ultime ore ad una precauzione più solida.

Dopo avere inutilmente invitato nei giorni scorsi Salvini alla moderazione, l’ex presidente del Consiglio gli ha praticamente offerto la testa del povero Stefano Parisi dicendo a Radio anch’io che senza il consenso del segretario leghista il mancato sindaco di Milano non potrà assumere la guida di un nuovo centrodestra. Ma domani o nei prossimi giorni l’opinione dell’ex Cavaliere potrà cambiare di nuovo.


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