Insieme a Marco Pannella, Mario Segni è forse la persona più titolata a parlare di referendum. La vittoria della consultazione del 1992, che segnò il passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario per l’elezione dei sindaci, è stato il primo vagìto della Secondo Repubblica. Un successo personale incredibile – rafforzato dall’invito agli elettori da parte di Bettino Craxi ad “andare al mare” – che lo fecero diventare uno dei protagonisti di quel momento di transizione. Poi, però, rifiutò, senza mai pentirsi, l’offerta di Silvio Berlusconi di prendere le redini del centrodestra, senza però riuscire a imporsi lui stesso come nuovo leader. Tanto che allora la battuta più frequente era che “Segni è come quelli che vincono alla lotteria ma poi perdono il biglietto”. Ed è proprio sotto il segno del maggioritario che Mariotto Segni voterà Sì al referendum costituzionale di domenica prossima. Un Sì critico, ma un Sì.
“Pur con diverse criticità, alla fine questa riforma, unita all’Italicum, preserva comunque il sistema maggioritario. Se uscirà vincitore, io credo che Renzi non metterà mano alla legge elettorale, se non in qualche sfumatura. Se invece vince il No, si torna dritti al proporzionale e torniamo indietro di trent’anni”, osserva Segni.
È mercoledì pomeriggio, il Transatlantico di Montecitorio è semivuoto perché l’Aula riprenderà i lavori dopo il voto, martedì prossimo. Segni deambula senza togliersi il cappotto nel corridoio dei passi perduti, conversando con alcuni cronisti di lungo corso, mentre i commessi portano in giro un paio di scolaresche. “Le critiche sono due. La prima è che Renzi ha accentrato troppo su di sé questo voto, si è posto come se fosse il primo riformatore della storia d’Italia, come se prima non fosse successo mai nulla. E questo, francamente, è inaccettabile. Ignora il passato e la storia di questo Paese. Ma lui è fatto così, ha un’altissima considerazione di sé che però, come abbiamo visto, lo danneggia”, spiega Mariotto.
La seconda critica è nel merito. “Il Senato, così com’è, mi sembra un pasticcio, non funziona, i senatori dovevano essere eletti. Loro dicono che lo sono, ma è una mezza balla. Non piace nemmeno che i senatori arrivino dalle Regioni, ovvero da quella classe politica locale che in questi anni ha dato il peggio di sé. Era meglio abolire il Senato tout court e avrebbero fatto bene a ridurre anche il numero dei deputati. Non è il bicameralismo perfetto il problema principale della politica italiana”, sostiene l’ex diccì.
Segni si rende conto che il passaggio è decisivo e che, lunedì mattina, avremo un’Italia diversa da quella di domenica sera. “Non so se il premier resterà a Palazzo Chigi anche in caso di sconfitta, se non avesse personalizzato così tanto sarebbe stata una cosa ovvia. Ma forse resterà comunque…”.
Previsioni? “Meglio di no, mi limito a dire che i referendum sono sempre degli oggetti misteriosi, quindi per me la partita è aperta. È comunque positivo che su temi così importanti come la Costituzione l’ultima parola spetti ai cittadini. Seppur tanto vituperata, la nostra è una bella democrazia…”.